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LONDON UNDERGROUND Honey drops Musea 2010 ITA

Dall’album “Through a Glass Darkly”, la loro seconda produzione in studio risalente ormai al 2003, ne avevamo perso ogni traccia. I London Underground sembravano spariti nel nulla e in effetti apprendo solo ora del loro scioglimento, avvenuto dopo un lungo periodo di pausa nel 2007, e del loro recente ritorno sulle scene. Allo stato attuale delle cose troviamo, della vecchia formazione, soltanto Gianluca Gerlini, artefice del poderoso e ruggente sound Hammond oriented caratteristico del gruppo, mentre si registra la grave defezione di Daniele Caputo (voce e batteria), figura carismatica ed elemento di traino che viene rimpiazzato, solo per quel che riguarda la batteria, da Alessandro Gimignani (ex Neon e Pankow). Il nuovo album è infatti interamente strumentale e perde quindi uno dei due fulcri, ovvero l’ottimo cantato di Daniele, che sostenevano la musica dei London Underground. Il trio viene completato dal bassista Fabio Baini e da tre ospiti che si inseriscono di quando in quando: Stefano Negri al sax, Riccardo Cavalieri alla chitarra e alla viola e Sergio Taglioni al Moog, Mellotron e Synful Orchestra. I London Underground ripartono da qui.
Il legame col passato è chiaro, dal momento che lo stile è improntato ad una pregiata psichedelia d’annata con salde basi di Hammond ma inevitabilmente qualcosa viene a mancare dopo il terremoto che ha portato alla scomparsa e alla ricostruzione del gruppo. Secondo me non è casuale che l’album sia composto per la maggior parte da cover: è come se i musicisti guardassero e si rivolgessero a figure chiave della loro ispirazione per ritrovare sé stessi, la loro anima, la loro grinta, una specie di guida spirituale che li indirizzi attraverso sentieri noti. Vengono così riproposti brani di Arthur Brown, (“Fanfare”), Beatles (“Norwegian Wood”), Brian Auger (“Ellis Island”), Jethro Tull (“Dharma for One”), Julian Adderley (“Jive Samba”, di cui è presente anche una versione “radio edit”), John Barry (“Midnight Cowboy”, colonna sonora dell’omonimo film) ed infine quelle che vengono definite “chicche” e cioè le cover di “Queen St. Gang” degli Uriel e di “Faster and Faster” dei francesi Eden Rose. I pezzi autografi sono soltanto tre e comprendono la title track, “St. Helens” e “Waiting For The Lady”. Partendo proprio da questi rileviamo che la prima traccia, molto bella e d’effetto, ha un taglio rockeggiante e diretto, piuttosto in linea col passato del gruppo. La seconda si basa su impasti più spacey e psichedelici più rarefatti mentre l’ultima, un riempitivo piuttosto trascurabile in verità, ha un’insolita impostazione orchestrale, con suoni piuttosto sintetici che si discostano dalla media dell’album. Tutta la potenza del disco viene in effetti sprigionata dalle cover ed il carattere del gruppo salta fuori già a partire dalla scelta dei brani, assolutamente non banale. Attraverso questi pezzi i London Underground riescono a far emergere la loro personalità ed il loro istinto, riuscendo ad impadronirsi di spartiti impegnativi e sicuramente noti agli ascoltatori, imprimendovi in un certo senso il proprio marchio.
L’album ha una sua continuità ed una sua omogeneità stilistica che ne consente un ascolto disteso che può essere goduto tutto d’un fiato dall’inizio alla fine (se si bypassa il mezzo inciampo della già citata “Waiting For the Lady”). Fra i vertici del disco considero l’interpretazione del pezzo di Auger che incarna secondo me abbastanza bene lo spirito della band, ma anche “Jive Samba” che sembra quasi risplendere in questa sua nuova veste cucita con le note vibranti dell’organo Hammond. Quello che voglio dire è che fareste proprio male a sottovalutare un album del genere solo perché i pezzi originali sono ridotti all’osso. Sicuramente però mi aspetto da questo gruppo un nuovo album composto interamente da pezzi inediti, che ritengo un passo dovuto dopo questo pur coinvolgente e ben fatto come-back.


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Jessica Attene

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