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LONGSHANKS The return of Longshanks autoprod. 2010 NL

Il nome Longshanks è un omaggio a Tolkien e si riferisce ad uno dei tanti soprannomi di Aragorn e in effetti questo album, il primo vero e proprio realizzato da questa band in 23 anni di vita, è ricco di riferimenti al “Signore Degli Anelli”, pur non trattandosi di un concept o di un’opera comunque fornita di una visione unitaria di insieme. Fra questi riferimenti troviamo delle riproposizioni di alcuni dei canti disseminati nelle opere del celebre scrittore inglese, come la famosa “The Road Goes Ever On”, qui presentata come “The Travelling Song”, o come anche “The Bath Song”, tratta da “La compagnia dell’anello”. L’album appare come un’opera abbastanza frammentaria ed altalenante e nasce dalla raccolta di undici canzoni realizzate nell’arco di tre anni, dal 2007 al 2010. Tutti i pezzi hanno una qualità piuttosto approssimativa, sia per quel che riguarda la registrazione che per quel che riguarda la tecnica esecutiva e la confezione degli arrangiamenti. In realtà sembrano quasi dei demo o degli appunti buttati giù alla spicciolata con tanti aspetti da rivedere e smussare. Tutto questo stride un po’ con la lunga storia della band che inizia addirittura nel 1987 passando però attraverso mille traversie che la hanno però trasformata negli ultimi anni quasi in una one-man-band. Tutto si viene ormai a reggere, allo stato attuale, sulle spalle di André Kamer (chitarre, basso, batteria, synth) che è anche il fondatore dei Longshanks, nonché l’unica presenza costante nel corso del tempo. La formazione odierna è completata da Alex Van De Graaf (voce, percussioni), anche lui fra i fondatori del gruppo, tornato di recente dopo un lungo abbandono, e infine da Bregje Kaasjager (voce). La qualità audio è quasi da file midi mentre dal punto di vista musicale possiamo trovare riferimenti ai connazionali Kayak, ma in versione decisamente meno brillante, e ai Blackmore’s Night con qualche tocco di Iron Maiden quando la ritmica inizia ad accelerare, anche se non siamo affatto nei territori del metal. I cori, su cui si dovrebbero appoggiare pienamente le canzoni, sembrano spesso andare fuori sincrono con la musica, le chitarre sono spesso suonate in maniera sciatta e la batteria si muove su ritmiche piuttosto elementari. Sovente la canzone è costruita su una base festosa di chitarra acustica o elettrica, come in una specie di canto da osteria che ricorda -perché no?- un po’ il feeling di certe situazioni Tolkieniane. Purtroppo però le voci stonano e il desiderio dell’ascoltatore è quello che la musica termini al più presto. Non c’è niente da fare, questo potrebbe essere solo l’abbozzo di un album che, così come è stato realizzato, sarebbe solo da risuonare da capo, magari con qualcuno che sappia dove mettere le mani fra strumentazione e mixer. Bocciatura totale su tutti i fronti per questo disco da dimenticare, sciatto e suonato male come non mi capitava da tempo di ascoltare. Soprattutto se amate Tolkien state a debita distanza da questo CD di cui mi sento di salvare solo la copertina.


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Jessica Attene

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