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LA DESOOORDEN El andarín autoprod. 2012 CHI

Il quinto album dei cileni La Desooorden rappresenta anche il capolinea del loro lungo viaggio artistico, iniziato nel 1994. Una e-mail inviata ai fans ne dava il triste annuncio e, assieme ai ringraziamenti ed i saluti, veniva offerta la possibilità di acquistare questo nuovo album, stampato in tiratura limitata di appena 100 copie. Ovviamente abbiamo risposto all’appello ed eccoci qua all’ascolto di questo concept incentrato sul viaggio di un personaggio che vaga per il Sudamerica senza una meta definita. I luoghi, le persone, i sapori del viaggio gradualmente sedimentano nella musica attraverso ritmi, melodie e racconti, arricchendone la consueta matrice granitica in un progressivo moltiplicarsi di colori ed esperienze di ascolto. Le tracce sono sedici ma sono tutte legate fra loro e possono essere ascoltate tranquillamente l’una dopo l’altra come se fosse un’unica lunga composizione che varia continuamente sotto alle nostre orecchie, come può variare sotto i nostri occhi la vista che si scorge attraverso un bellissimo viaggio in motocicletta, lungo sentieri polverosi che sembrano portarci verso orizzonti lontani.
Il disco si apre con un pigro gracidare di ranocchie, “Clave anfibia”, che lascia presto campo a “Campante andarin”, dal groove crescente e ruvido, scandito dalla buffa pifilka (un flauto simile a un fischietto, tipico della Patagonia) che segna quasi un ritmo di marcia. Ma il meglio deve ancora venire ed il treno che sfreccia in “Viento de la llanura” (il suono è stato catturato nei pressi di Buenos Aires) ci porta verso la pampa con “Puerto Allende la pampa”. Questa traccia è davvero divertente e spettacolare: vi riconosciamo infatti una specie di ritmo di tango, scandito da chitarre sature, mentre il sax tenore e la tromba donano un accento grottesco e quasi klezmer. Come contrasto Fernando Altamirano Barria sfoggia un bel canto molto enfatico e molto sentimentale con un effetto finale davvero particolare e spassoso.
Molto bella è la scelta degli strumenti ritmici ed etnici, impiegati in abbondanza ad arricchire le trame di una batteria comunque agile, fra caxixi, palo de agua, cascabel, berimbau e molto altro. Ascoltate ad esempio la festosa “Sueños de carnaval” che ricorda i Los Jaivas di “Alturas de Macchu Picchu”, con il suo incedere vivace ed i riferimenti sonori al Perù. Fragranze etniche si mescolano così ad un prog tenebroso dai riflessi Crimsoniani e Vandergraffiani, in un impasto davvero personale e coinvolgente che trovo difficile rapportare ad altre band. Soprattutto è bello il connubio fra strumenti tradizionali molto semplici, come appunto la pifilka, ed il suono elegante del violino che si insinua come un’ombra fra i ritmi tribali colorati. La orgiastica “Ayahuasca”, estratto vegetale dalle proprietà allucinogene, è ancora un riferimento al Perù e trascina l’ascoltatore dritto nel vortice della follia che sembra aver colpito la band al completo e soprattutto il cantante con la sua interpretazione urlata e teatrale.
Sempre a proposito di bei ritmi sudamericani, mi piace citare “Llegandos a llanos” che istiga alla danza a suon di bongo, maracas e darbouka in un intreccio di ritmi latini e jazz acido davvero intrigante. In “Escape de la favela” i ritmi del carnevale di Rio sembrano acquisire una connotazione lugubre davvero insolita e grottesca in una brano che mette in evidenza le contraddizioni di un paese che si diverte a suon di samba ma che è colpito allo stesso tempo dal dilagante spettro della povertà. Ogni bel viaggio giunge prima o poi alla fine ed i posti più belli sono forse quelli a noi più vicini, anzi, direi che ce li portiamo dentro, come recita la traccia di chiusura, insolitamente sentimentale e poetica, che oscilla fra tematiche Vandergraffiane e dolci nenie dal sapore latino, che romanticamente ci fa notare che il giardino non si trova in cielo ma dentro di noi (“Mi jardín interno”).
Questo è un disco di addio, è vero, ma non è per niente triste, anzi, offre un turbinio di suoni e di ritmi davvero interessante, con intrecci fra colori caldi latini, impasti rock acidi e caustici e suadenti inflessioni jazzy. Spero che questo sia anche il preludio di nuove avventure musicali per musicisti creativi, validi, che hanno saputo costruirsi un proprio linguaggio e spero anche che riusciate a rientrare fra i fortunati cento.



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Jessica Attene

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