Home
 
LIGRO Dictionary 2 Moonjune 2012 INDN

Ligro, lettura speculare della parola bahasa “ogril”, che sta ad indicare la gente matta nel senso buono del termine, alludendo cioè a chi si lascia completamente andare, proseguendo il proprio cammino privo di qualsiasi paura. Va inquadrato in questo contesto di sovversione degli standard e della mancanza di freni inibitori il trio indonesiano in esame, fondato nel 2004 dal chitarrista dalla fortissima personalità Agam Hamzah assieme al bassista Adi Darmawan ed al batterista Gusti Hendy (definito come probabilmente il più famoso drummer nazionale e già operativo nella pop-rock sensation locale GIGI). Dediti ad un iper tecnico jazz-rock assai sperimentale e “rumoristico”, dopo l’esordio nel 2008 con “Dictionary 1” (reperibile peraltro solo in patria) oggi i nostri puntano decisamente ad andare oltre l’ambito locale e quindi far rotta verso gli ampi lidi internazionali. Una compagine che si adatta bene al profilo delle band messe sotto contratto dalla newyorkese Moonjune Rec., tra avanguardia e tracce di folk esotico, proprio come è capitato con i nostrani Slivovitz. Ci potrebbe anche essere qualche punto di contatto con l’ensemble italiano, ma fin dall’iniziale “Paradox” sembra proprio che i riferimenti siano assai più duri. In questi casi si cita per comodità la Mahavisnu Orchestra e non si sbaglia mai se si mettono in mezzo anche i King Crimson, ma l’agilità del terzetto, pur nella sua rumorosità, richiama spesso i solismi più astratti di Allan Holdsworth, il progetto The Nerve Institute del giovane e colpevolmente mai celebrato Mike Judge, ma anche realtà strumentali ancora più estreme come gli Spastic Ink di Rob Jarzombek (sei corde dei WatchTower, cioè quella che negli anni ‘80 era definita la techno-metal band per eccellenza). Oltre ad una certa somiglianza anche di attitudine al comando e alla coordinazione col chitarrista statunitense di origini polacche, Hamazah presenta qualcosa in comune anche con le scelte stilistiche intraprese dal guitar-hero indiano Prashant Aswani – pupillo di un grande riferimento nel settore come Greg Howe – dopo il suo debutto.
Il paradigma del combo sud-asiatico è senza dubbio da individuare in “Stravinsky”, una rielaborazione della “An easy piece using five notes” dell’autore omonimo caro soprattutto a Frank Zappa, preceduta da un’intro di Bach. Undici minuti e mezzo che salgono gradualmente di intensità, in cui Hamzah si lascia andare a dei fraseggi contorti ed intensi sempre più frenetici, quasi sospingendosi a forza tra il marasma ipercinetico della sezione ritmica. Qualcosa di simile, allo stato attuale, lo si può sentire negli abrasivi norvegesi Elephant9, ma lì si parla di una psichedelia viscerale assai epidermica; qui sembra di ascoltare delle partiture molto più cerebrali, paradossalmente.
Con “Future” si cammina sui territori del blues, denotando grandi exploit solisti di basso; in questo contesto, ed ancor di più in “Don Juan” (tra le cose migliori), si strizza l’occhio a quel Jeff Beck che tentò di superare gli schemi pentatonici in cui era stato ciecamente rinchiuso. Andando avanti si può parlare anche del David Fiuczynski solista o di certe prime cose di Terje Rypdal, ma anche dello sconosciuto ai più David Tronzo Trio e quindi a certi stravolgimenti in chiave stralunata di Jimi Hendrix.
I dieci minuti abbondanti di “Bliker 3” sono aperti dall’altero pianoforte di Adi Darmawan e dopo la (fin troppo) lunga stasi si giunge ad un finale infuocato. Un grande clima di attesa si forma nell’ancora lunga “Étude indienne”, dove si lavora di slide guitar sullo stile della vecchia psichedelia dal sapore rurale ripresa da Michael Lee Firkins, ma qui ovviamente il gusto provato è ben diverso. Si arriva così a “Miles Away”, con ogni probabilità dedicata alla memoria di Miles Davis, e già ci si sente abbastanza stanchi; la conclusione è affidata ai tredici minuti della jam “Transparansi”. Decisamente troppo. Volendo essere sinceri, non si è arrivati molto facilmente alla fine di questo lavoro. Ed anche riascoltandolo, pur apprezzandolo meglio, si fa sempre fatica.
È ovvio che qualcuno, difensore indefesso dell’easy listening ad ogni costo, porterà avanti qualche campagna promozionale per usare questo CD come frisbee… ma il punto non è affatto questo. Se si vuole insistere su una formula spesso ostica, indirizzata senza dubbio alcuno ad un pubblico di appassionati e/o curiosi, i brani dovrebbero essere di numero inferiore e la stessa scelta andrebbe fatta con il minutaggio, perché solo i fanatici delle dissonanze potranno arrivare senza problemi fino in fondo. E in quanti sarebbero, in media?
Per sintetizzare il problema, diciamo questo: i Ligro sono davvero molto bravi. Ma loro, ahimè, sembra che lo sappiano fin troppo bene.


Bookmark and Share
 

Michele Merenda

Collegamenti ad altre recensioni

LIGRO Dictionary 3 2015 

Italian
English