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JOHANNES LULEY Tales from sheepfather’s grove My Sonic Temple 2013 USA

Solo pochi anni fa (era il 2008) ci avevano conquistato con uno splendido album intriso di ricche suggestioni che avevano gli Yes come principale fonte d’ispirazione. Di lì a pochi mesi però i Moth Vellum decisero di sciogliersi con nostro grande dispiacere. Ecco perché, non appena saputo che il chitarrista della band, Johannes Luley, aveva prodotto un album solista, non potevamo certo farcelo scappare.
Se poi il biglietto da visita è una copertina a dir poco splendida (un misto fra Roger Dean e C.D.Friedrich) dell’artista Harout Demirchyan, ecco che l’ascolto di “Tales from sheepfather’s grove” diviene un vero e proprio obbligo.
Luley si occupa di tutti gli strumenti (perlopiù acustiche le chitarre, anche se c’è spazio anche per qualche intervento dell’elettrica; tastiere, Moog in primis; qualche strumento etnico e, come ci spiega l’artista stesso nelle note di copertina, non essendo un batterista, si limita ad utilizzare delle percussioni a “mano” tipo bonghi e tamburi vari) e gli unici aiuti esterni arrivano dalla voci di Sianna Lyons e Robin Hathaway (in un paio di brani) e dalle armonie vocali di Kristina Sattler in “Guardians of time”.
Un album dai colori delicati, molto emozionante e che avvicina il nostro all’Anderson di “Olias of sunhillow” o a qualche episodio della lunga carriera solistica di un altro “Yes”, Steve Howe.
La musica africana sposa il folk celtico, garbate aperture sinfoniche si fondono con notevoli momenti condotti dalla chitarra acustica dell’artista americano in un melting pot sonoro molto efficace.
Molte le perle dell’album.
La bella voce di Luley e la sua chitarra acustica disegnano le delicate melodie di “Guardians of time”.
“Moments” è un gioiellino molto raffinato con cori eterei ed un bel tappeto di tastiere.
“Give & take” ci permette di ascoltare anche la chitarra elettrica anche se il pezzo mantiene sempre un sentore etnico evidente per le ritmiche tribali delle “hand-percussions”.
“We are one” sancisce ancora di più il feeling con gli Yes più celestiali, ma anche con M. Oldfield ed A. Phillips.
“Atheos spiritualis” (divisa in 4 movimenti) “flirta” persino con la classica (“Ouverture” e “Bolero”), ritrova profonde radici “native” (“All we can be”) per chiudere in modo quasi sussurrato (“Doldrums”).
Un lavoro di indubbia raffinatezza che saprà senz’altro conquistare gli amanti di un certo tipo di prog prevalentemente acustico contaminato da istanze etniche e anche i fans di Jon Anderson…


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Valentino Butti

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