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MIZAR Kobna ubavina Dallas Records 2004 MAC

Forti di un nutrito seguito nel proprio paese d’origine, ed oltremodo orgogliosi della propria paternità macedone, i Mizar propongono un coraggioso cross-over tra rock gotico, new-wave e folk balcanico, scegliendo di cantare nel proprio idioma (con un paio di eccezioni anglofone) e di incorporare in un contesto rock tradizioni di musica bizantina e liturgia ortodosso-slavonica.
Spaventati dall’introduzione? Non preoccupatevi troppo, il risultato è forse più fruibile di quanto possa suggerire il manifesto sonoro, o almeno la seriosità e la staticità del cantato monocorde (supportato da un inquietante coro basso) è stemperata da riff ciclici di chitarra e a volte addirittura da una base elettronica debitrice di alcune oscure ed esistenzialiste esperienze wave degli anni ’80.
Come accennavo in apertura, la band - formatasi a Skopje nel 1983 - ha ormai acquisito uno status di culto in madrepatria, forse per il fatto di aver pubblicato nel 1988 il primo album rock cantato in lingua macedone (anziché in serbo-croato, lingua ufficiale della ex-Yugoslavia) in piena fase di disintegrazione della Federazione e di affermazione delle identità nazionali (come sappiamo, terribilmente sanguinosa altrove, ma fondamentalmente pacifica in Macedonia).
“Kobna Ubavina” (sottotitolo inglese “A Terrible Beauty is Born”) è il terzo parto di una band alla terza incarnazione, avendo subito negli anni innumerevoli cambiamenti di line-up, tutte incentrate attorno alla figura del leader-chitarrista Gorazd Chapovski, unico comune denominatore delle formazioni.
Impossibile ricondurre la miscela sonora creata dai Mizar ad altre esperienze geograficamente distanti, perché si perderebbe l’elemento fondamentale fornito dal folclore. Potrei divertirmi ad immaginare i Joy Division o i primi Depeche Mode esibirsi in abito da pope supportati da un coro maschile e da un ensemble di strumenti tradizionali balcanici nel bel mezzo di una celebrazione greco-ortodossa, ma non farei altro che sminuire il significato di quest’opera che trova anche (soprattutto?) nelle liriche una compiuta ragion d’essere.
L’accostamento tra momenti di tradizione pura (come il brano “1762”) e parentesi più dinamiche e “occidentali” come l’apprezzabile “Armakedon” o “Juda”, sostenuta da un insistito riff quasi metal o la citazione morrisoniana dell’apertura “Atfilohij”, in cui Goran Trajkovski inserisce l’inciso “break on through to the other side” in un contesto completamente alieno, potrebbero far riflettere sulla probabile presenza di una spruzzata di ironia prevista dalla strana ricetta, ipotesi supportata anche dalla cover di “Sweet Dreams” degli Eurythmics inclusa nell’omonimo album del 1991 (“Svjat Dreams”).
Quanto di tutto ciò può essere apprezzato dall’ascoltatore medio di rock progressivo? Non saprei dirlo, ma il target mi sembra più spostato verso un pubblico “con le unghie dipinte di nero e con il Libro della Legge di Aleister Crowley sotto il braccio”; per i più curiosi e coraggiosi esiste comunque una nutrita collezione di sound-clips sul sito ufficiale della band.

 

Mauro Ranchicchio

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