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MARTIN MAHEUX CIRCLE Requiem pour un vivant Unicorn Digital 2008 CAN

Certe cose toccano il cuore ... nel profondo. Il senso immateriale di queste parole affonda lame di oscura materia in carni lasciate per troppo tempo a macerare. Carni che non concederanno più schizzi di sangue, materia dalla quale non evaporerà nessuna anima silente. Ci saranno solo brandelli laceri che cadranno a terra, rotolando sullo stanco corpo del disfacimento. Eppure in quel corpo c’è ancora vita. E’ una forma di vita anomala, alternativa, difforme dalla normale conoscenza. È la vita sospesa del Gargoyle che vive nel momento in cui l’acqua lo attraversa, è l’arte glittica, il bassorilievo che vive dal momento in cui è finito, ma per sempre. E a questa vita, eterna, ma non pulsante, è dedicato il nuovo lavoro del Martin Maheux Circle. Lasciando indietro temporaneamente i duri tecnicismi degli Spaced Out e anche lasciando da parte le atmosfere jazz e etniche del precedente capolavoro “Sybille”, Martin Maheux, per questo “Requiem Pour Un Vivant”, affonda le proprie radici sonore nella musica cameristica con gli strumenti ad arco a fare da incontrastati padroni della scena. Il disco, rispettando le indicazioni del titolo, ha un forte sentore mesto per tutta la sua durata. Rispetto al precedente c’è meno immediatezza (non che in Sybille ce ne fosse molta, comunque) e le trame, apparentemente pacate, risultano intrecciate tra archi, batteria e, occasionalmente, pianoforte, in maniera decisamente complessa, in un viaggio che molto spesso punta verso una forma di visionaria spiritualità. La traccia d’apertura del disco, la fenomenale “Lazaret”, presenta una batteria con l’incredibile varietà e complessità del jazz rock più sinfonico, ma protagonista è un violino che gioca su scale lancinanti ed è proprio lui a dare vita a quella carne inanimata di cui si diceva all’inizio. I violoncelli che lo inseguono, lo completano e lo appoggiano nella dovuta ritmicità classica, in contrapposizione all’aritmicità jazz della batteria in un connubio di andate e ritorni che sanno penetrare l’anima dal giusto lato emozionale. Meno decisa e più riflessiva ed ipnotica la lunga “6 Pieds Sur Terre”, pur con una sezione centrale da brivido R.I.O. alla Univers Zero. Splendido anche l’intermezzo di violoncello volutamente noioso, che prima da solo, poi dal sottofondo sostiene e introduce un violino che, come una punta di fioretto avanza e ci fa, finalmente, prendere contatto con l’oscura melodia che stava celando, trattenendoci nella morsa fino alla fine. Ed è lì che scopriamo che fine non c’è, perché questa minisuite è fusa con la successiva “Stagnation”. Ed è ancora una batteria classicamente jazz sulla quale si muovono violoncelli seducenti e violini ora ariosi e tenui ora secchi e intersecati su livelli di tensione magistrale. I passaggi si pongono su strati di diversa sollecitazione emotiva spingendo l’ascoltatore dapprima a tendersi e poi a rilasciarsi in un continuo susseguirsi di alti e bassi, ipnotizzato e liberato, affascinato e respinto, ammaliato e disgustato da vita e morte, nell’ossimoro della title track come nelle note magmatiche, penetranti e con il sapore della dissonanza jazz nel pianoforte, della conclusiva “Iconoclasta”.
Disco affascinante, talvolta come e più del precedente “Sybille”, talvolta in maniera meno intrigante e meno coinvolgente, ma sempre di livello eccelso.

 

Roberto Vanali

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