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MATERYA Case White Knight 2012 ITA

E’ strano come sia stato scelto un nome che, letto in italiano, porti a pensare a qualcosa di fisico per un progetto musicale che al contrario è pieno di romanticismo, poesia e canzoni che sembrano fatte per essere ascoltate da soli, magari con la pioggia che mormora dietro finestre dai vetri appannati. I Materya sono un duo legato agli Altavia, gruppo di prog melodico già trattato sulle nostre pagine, costituito da Andrea Stagni (piano, tastiere, programmazione, chitarre, basso, cajon, percussioni, armonica e voce) e Betty Copeta (voce), ai quali si affiancano alcuni ospiti e cioè Marcello Bellina (Altavia) e Claudio Trotta (Deus Ex Machina) che hanno suonato la batteria in alcune tracce. Tutto nacque nel 2008 da un’idea di Francis Dunnery che chiese al duo di portare avanti il progetto sotto la sua supervisione, dopo aver ascoltato un pezzo originariamente scritto per lui. La nascita degli Altavia fece slittare i Materya in secondo piano finché, nel 2011, tutto comincia nuovamente a girare, senza però la collaborazione di Dunnery, terminata a causa delle diverse prospettive che la musica stava prendendo rispetto al piano originale. Quella di Betty è la voce solista principale alla quale si affianca a volte sullo sfondo quella di Andrea con i ruoli che si ribaltano in pratica nella sola “Across the Light”. Betty ha un timbro dolce e limpido che risalta sia nei pezzi in inglese che in quelli in italiano che sono presenti in maggioranza. L’apporto strumentale può essere dato a volte essenzialmente dal piano, come nella elegante traccia di apertura, “Hide from Angry Hear”, e altre volte vengono scelte soluzioni più romantico-sinfoniche con venature pop, come in “The deed is done” e in numerosi altri brani, con riferimenti ad Aries, Magenta o Karnataka. Molto belle sono le semplici orchestrazioni ed i giochi vocali di “Braccialetti di diamanti”, una vecchia canzone le cui liriche, scritte dalla poetessa Mitì Vigliero, furono ispirate da una foto scattata da Andrea lungo le rive dell’Arno. Qualche guizzo sinfonico, sempre molto contenuto, viene instillato qua e là, senza alterare mai l’impressione generale di luminosa semplicità che offre ogni singola canzone. Il finale di “Domenica” ad esempio è illuminato persino da tastiere in stile Yes e addirittura da un cantato, oserei dire, quasi Magmiano. Fra i brani a mio giudizio più belli mi piace segnalare “Case nella bassa” con un testo descrittivo e poetico e tratteggi sinfonici sfumati fatti di archi impercettibili sullo sfondo con i quali la voce di Betty sembra quasi sfumarsi e confondersi. Quello che si sente sospirare attraverso la musica pare sia un autentico fantasma, registrato accidentalmente mentre il duo cercava di catturare i versi del barbagianni che vive vicino allo home studio dove è stato realizzato l’album. “Stella Splendens” è un altro brano da mettere in evidenza, con un antico testo in latino e una melodia che viene dal medioevo, utilizzata anche da molti altri gruppi, Tri Yann compresi. Questa interpretazione è particolarmente bella per gli arrangiamenti sinfonici ed elettrici che trovano soluzioni intriganti e personali con un finale incredibilmente Genesisiano che devia il corso della canzone in maniera inaspettata.
In generale non troviamo la perfezione formale dell’album degli Altavia e neanche la desidererei ad essere sincera perché altererebbe quella sensazione di album intimistico, poetico e personale col quale si entra subito in empatia. Il sentimento che pervade l’opera è una costante e dolce malinconia che associo a paesaggi piovosi ed autunnali e in cui è piacevole cullarsi. Forse accorciare un pochino la durata complessiva (un’ora in tutto) avrebbe però reso l’ascolto dell’intera opera un po’ più agevole: il tono lieve delle canzoni, il loro inesauribile romanticismo, forse alla lunga non consente di affrontare l’album in un’unica seduta ma anche qui ci sarebbe da dire che in una scatola piena di affetti e ricordi non si può stare lì a fare cernite e tanto vale rovesciare tutto sul pavimento e guardare ciò che ci va, lasciando ad un secondo momento il piacere di completare l’esperienza. L’album è in definitiva fatto davvero bene, anche se è forse un po’ ridondante e sia i testi che la musica hanno un loro fascino particolare forse accresciuto dal fatto che vi si scorgono frammenti di vita personale degli autori che li avvicinano per questo al cuore dell’ascoltatore. Con tutto quello che esce al giorno d'oggi, fra sapori dolci ma artificiali, fra opere formalmente splendide ma prive di anima, direi che la sincerità e l’autenticità di questo album sono davvero da premiare.


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Jessica Attene

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