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MAGLEV Overwrite the sin autoprod. 2016 NL

Il primo album solista di Joost Maglev, bassista olandese con esperienze passate in band come Galanor ed Equisa (possa diventar cieco se li avevo mai sentite nominare!), ha suscitato non pochi apprezzamenti tra una certa cerchia di appassionati (diffusi soprattutto in Olanda e Germania), coloro per i quali un mix di Asia, Yes, Queen e Valensia (art-rocker semi-sconosciuto da noi ma piuttosto noto in Nord Europa) rappresenta un’opportunità su cui fiondarsi a testa bassa. Benché queste referenze possano risultare ben poco attraenti per molti appassionati avvezzi ad un Prog più consistente e meno imbellettato, occorre dire che potrebbe essere un errore snobbare a prescindere questo dischetto senza beneficiarlo di almeno una chance.
Cominciamo dall’inizio… dicendo che l’album contiene 5 tracce (8 minuti la durata minima), suonate quasi interamente dallo stesso Joost, a parte la chitarra, di cui si occupa Sebas Honing (altro membro degli Equisa), poche backing vocals, qualche parte di piano e violino (su una traccia). Malgrado ciò il suono di quest’album è molto brillante… ed è proprio la brillantezza l’ingrediente necessario, senza il quale le composizioni, almeno quelle della prima parte del CD, perderebbero i propri connotati principali. Fin dall’iniziale “Play the Game” veniamo investiti nello scintillante miscuglio cui accennavo all’inizio; ai nomi già fatti aggiungo, per completezza, quelli di Electric Light Orchestra e Boston. Cori da arena, sonorità pomp… sembra già tutto indirizzato verso un preciso obiettivo, ma Maglev ha in serbo delle sorprese per i propri ascoltatori. Il primo brano però, a parte un interessante intermezzo centrale, termina sulle stesse note d’avvio.
“Song of a Dead Bard” inizia in dolcezza, con morbide line di piano che sottolineano un crescendo vocale molto lirico; alcune linee di tastiere (Moog?) e una chitarra melodica ci introducono a una parte in cui affiora il cantato di Scarlet Penta, fino al finale dalle tonalità romantiche e antemiche.
“Judith” ha connotati molto diversi per i quali possiamo chiamare in causa anche Cardiacs e Zappa. Il brano è deliziosamente grottesco ed eccessivo, con assonanze ai Queen di “Bohemian Rhapsody”, musica operettistica, ma anche elettronica e musica circense. Stravaganza massima brillantemente spalmata su 8 e passa minuti.
“Confined” pare tornare alla normalità, per un brano che inizia tutto in delicatezza, con violino e chitarra acustica. Nella parte centrale del brano, inaspettatamente, c’è una repentina accelerazione su uno hard rock tirato e frenetico che ci accompagnerà fin quasi alla fine. La conclusiva “The Hands of Time” è un lungo brano di Prog più classico, romantico e melodico, con un bel crescendo d’atmosfera, tanto ordinario quanto piacevole, alla fine forse il migliore dell’album.
L’album di Maglev, alla fin fine, è gradevole; Joost ha una bella voce, peraltro, calda e melodica, appena un po’ fragile ma dalla bella timbrica. Il disco comunque ci offre un art rock a tratti apprezzabile, anche se non riesco a condividere gli entusiasmi con cui è stato accolto altrove.



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Alberto Nucci

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