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NAIKAKU Shell Poseidon Records/Musea Records 2006 JAP

Una figura in rosso e blu è sdraiata su uno sfondo scuro. La figura, androgina, forse dorme, forse pensa, forse si riposa, forse è morta. Una scritta in alto a sinistra che tutto potrebbe essere tranne il nome della band. E invece è proprio quello. Naikaku, dal Giappone, Tokyo. Il gruppo, al completo di tutti gli strumentisti, risulta essere Satoshi Kobayashi al basso, Kazumi Suzuki al flauto, Norimitsu Endo alla batteria, Mitsuo Muraoka e Kei Fushimi chitarristi e Daichi Takagi per tastiere, Minimoog e Mellotron. La parte del leone spetta al flauto per queste sei composizioni e per un’ora di progressive dove troviamo stilemi del passato esasperati, talvolta, da chitarre aggressive e momenti, rari, di pura follia free-jazz.
Non celabili riferimenti a Jethro Tull, King Crimson, Focus e Iron Butterfly e anche Magma. Ascolti più recenti della band sono da ricercare in Anekdoten, Nodo Gordiano e, soprattutto, certo progmetal americano, specie nella scelta delle ritmiche complesse e variabili ad ogni battito cardiaco. Ad ogni modo quel flauto traverso spesso placa ogni evasione. Brani lunghi, ma anche ascoltabili grazie alle continue variazioni e agli assoli ben calibrati e, a volte, tendenti anche al sinfonico, come la lunga fuga di Minimoog di “Ressentiment”. Quando l’evoluzione del brano porta gli accordi e le ritmiche verso il Jazz-Fusion troviamo riferimenti a Steve Vai, Tommy Bolin (Quadrant IV con Billy Cobham è il riferimento esatto) e Zappa.
Oltre i 15 minuti il primo brano “Crisis 051209” ricco di cambi di tempi, atmosfere, temi e stili. Impressionante (per similitudine) è la parte centrale con “Colores Para Delores” di Kevin Ayers. Situazioni arabeggianti sul finale con esplosioni di flauto e temi alla Lawrence d’Arabia. Molto interessante, già citato, il secondo brano “Ressentiment”. Quasi nove minuti: attacco aggressivo, tempi dispari, battute sincopate e cambi di protagonista tra la chitarra distorta e il flauto. Un lungo assolo di chitarra, giocato alla meglio in attesa di un’esplosione sull’assolo di minimoog e un finale spremuto e deciso. Di piglio più fusion il terzo brano. Inutile dire il titolo perché essendo di ben 182 parole, prenderebbe quasi lo spazio di una recensione media e più della sua durata di circa 7 minuti. Il brano è meno interessante dei precedenti, meno spunti e un po’ ripetitivo. “Lethe”, quarta traccia odora di anni ’70, di hard blues, di underground, di Atomic Rooster, di Deep Purple, 9 minuti di gran rock con un assolo finale doppiato tra flauto e chitarra veramente centrato. La title track “Shell” apre alla Anekdoten e per quasi tutta la durata di oltre 16 minuti offre spunti intelligenti ora tulliani, ora crimsoniani. Per tutta la durata i riferimenti sono un po’ più che accenni. Il discorso è sempre quello che ripetuti e attenti ascolti spesso possono cambiare la genetica, e scrollarsi di dosso il passato, seppur altrui, è piuttosto difficile. Il tentativo di personalizzare l’andamento dei brani c’è e, in effetti, a tratti c’è anche la riuscita dell’intento. Ultimo brano, “Tautrogy“, il più breve del lavoro per poco più di tre minuti di aperta e positiva follia prog. Un concentrato di tutto ciò che può venire in mente: chitarre distorte, assolo di minimoog, samples di mellotron, tempi dispari, flauto tirato e sincopato, ecc. ecc.
Complessivamente un lavoro valido meritevole di essere consigliato a chi ama il prog un po’ aggressivo e underground riferito soprattutto ai gruppi citati nella recensione. Diversi ascolti portano ad un maggiore apprezzamento, anche se, paradossalmente, mettono in evidenza anche il principale difetto del disco: quel flauto se preso brano per brano è molto apprezzabile e degno dei migliori ricordi dei ’70, se ascoltato di filato diventa un po’ troppo presente.

 

Roberto Vanali

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