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NEMRUD Nemrud Rainbow 45 Records 2016 TUR

Sospesa tra Europa e Medio Oriente, la nazione turca ha dato i natali a molti artisti la cui musica è assimilabile al Prog ma dai connotati, anche quando sono influenzati dalle tradizioni locali, molto sbilanciati sul versante della psichedelia; poche sono state le eccezioni ed i Nemrud non sono fra queste. Benché esplicitamente Prog (e questa è una rarità sulle rive del Bosforo), la musica della band guidata da Mert Göçay, giunta al suo terzo album, si muove su territori spaziali e psichedelici, esprimendo le proprie trame sonore attraverso lunghe cavalcate siderali in cui si alternano atmosfere ipnotiche, di ampio respiro, ad accelerazioni e sfuriate più metalliche.
Questo nuovo lavoro si articola proprio su 4 lunghe tracce di durata omogenea, tutte tra gli 11 e i 15 minuti, unite da un concept che stavolta si incentra proprio sul sacro monte Nemrud (o Nemrut Dağı), sulla cui vetta il re Antioco I di Commagene fece costruire la sua tomba santuario, a dominare la valle scavata dal fiume Eufrate, e che storicamente viene considerato una sorta di intersezione tra Oriente e Occidente; un luogo ricco di storia, leggende e narrazioni bibliche che il gruppo ci invita ad esplorare… quanto meno con la fantasia.
Si inizia con “Gods of the Mountain” che, dopo un susseguirsi di potenti riff di chitarra, si dipana su ritmiche più ampie, lineari e sinfoniche, con delicati accenni di stampo mediorientale e un cantato (in inglese) dalle tonalità quasi mistiche. Altre accelerazioni ritmiche si ripresentano nella seconda parte della traccia, ove progressivamente la chitarra riprende vigore, sostenuta dalle urla delle tastiere.
“Lion of Commagene” sia avvia su tonalità eteree e mistiche, col cantato che pare sussurrarci antiche storie di re, eserciti trionfanti e statue colossali. L’organo suonato da Mert Topel sale stavolta in cattedra e ci guida attraverso una mini sinfonia dai discreti accenni jazz che pervadono le atmosfere magiche che vengono create. Il brano ha un incedere più complesso e di minor impatto del precedente, con la chitarra costantemente arpeggiata, che solo negli ultimi secondi pare infuriarsi; delizioso ed affascinante.
“The Euphrates” inizia, giustamente, col fluire dell’acqua; il brano è quello più spiccatamente jazz-rock dei quattro, snodandosi su ritmiche e tonalità finora inusuali, anche se pur sempre con un vago sapore spacey, delicatamente floydiane. Le ritmiche provano, nella parte centrale, ad accelerare ma sfumano subito in una fase quasi avanguardistica che successivamente sfocia in una seconda parte del brano che mi ricorda molto alcune cose degli Eloy anni ‘80.
“Forsaken Throne” sfiora i 15 minuti ed è introdotto da suoni elettronici che si fondono ad arabeschi sonori e si gettano in larghe atmosfere floydiane. Il cantato si fa decisamente più melodico e la traccia procede in maniera tranquilla e cadenzata per alcuni minuti; l’accelerazione hard rock è dietro l’angolo, salvo scemare quasi improvvisamente dopo poco, per un finale caratterizzato da suoni più avant ed elettronici. L’ultima sfuriata ce la regalano negli ultimissimi secondi ma serve solo a chiudere quest’album con un virtuale arrivederci su queste frequenze.
“Nemrud” è un album eclettico quindi, più del precedente “Ritual”, anche se le caratteristiche della band di Istanbul non vengono stravolte. Talvolta sembra sempre che manchi un quid a questo gruppo per poter raggiungere la maturità; talvolta sembra perdersi nei meandri degli spazi siderali ma alla fine perdersi nelle ambientazioni da loro create è piuttosto piacevole.



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Alberto Nucci

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