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OHO Okinawa autoprod. 1974 (Rockadrome 2010) USA

Nonostante la curiosità e la grande ammirazione che la scena prog americana underground dei Seventies riesce a suscitare nell’animo degli appassionati, raramente ho avuto modo di sentir parlare in giro degli OHO. Eppure stiamo parlando di una band longeva e prolifica, piuttosto originale ed eclettica, che è riuscita a produrre opere di valore. Sarà forse per il loro spirito bizzarro o per il loro modo di fare irriverente e goliardico, sarà perché ogni disco è diverso dall’altro e non si riesce a trovare un vero e proprio filo conduttore che li colleghi, sarà forse il fatto che qualche scivolone in alcune occasioni lo hanno fatto o forse perché hanno scelto la strada dell’autoproduzione in un periodo in cui questa scelta significava essere praticamente tagliati fuori dal mercato… sarà tutto questo o forse no ma è giunto il momento per molti di voi di scoprire questo gruppo grazie magari proprio alla ristampa di “Okinawa”, uno dei loro vertici artistici.
OHO, tre lettere che ricordano il suono di una tonda risata, sono le iniziali dei cognomi di Joe O’Sullivan (chitarra), Steve Heck (basso) e Mark O’Connor (tastiere), scelte nel 1973 per il nome di questa band. Le radici del gruppo affondano però fino al 1970, epoca in cui i due musicisti con la O, più il cantante e chitarrista Jay Graboski, suonavano blues in un club di Baltimora. Un anno più tardi i due O formano un quartetto di prog sinfonico a tinte gotiche, i Little Hans, assieme al fratello di Jay alla batteria, Jeff, e a Trent Zeigen alle tastiere. Per inciso, vale la pena cercare il loro unico album, “Wunderkind”, un concept di 45 minuti ispirato a Peter Pan. Un anno più tardi i Little Hans si sciolgono e qui inizia l’avventura degli OHO, un pazzo trio che si dedica alla sperimentazione più bizzarra e rumorosa che viene presto completato col ritorno di Jay Graboski e con un nuovo elemento: il batterista fusion Larry Bright. Giungiamo quindi ad “Okinawa”, il debutto discografico degli OHO che avviene nel Luglio del 1974 e che rappresenta tra l’altro uno dei primi album stampati in maniera indipendente da un gruppo americano. La band racconta di essere incappata in un certo numero di individui che avevano promesso di distribuire e vendere il disco, ed è finita poi col regalare la maggior parte delle copie stampate. E’ così che la versione originale “Okinawa” è diventata un vero e proprio pezzo da collezione ed è forse anche per questo che degli OHO si sente poco parlare in giro. E questo vizio di fare regali è rimasto nel tempo a questi svitati, dal momento che alcune ristampe su CD sono state date in omaggio assieme ad una rivista americana di Prog.
Ma torniamo ad “Okinawa”: la ristampa in oggetto, una splendida versione in CD apribile, con un nutrito booklet, contiene un totale di 30 pezzi per una durata complessiva di circa 74 minuti, mentre la versione originale era di sole 16 tracce. I pezzi in più, intercalati in maniera sparsa nel contesto della scaletta originale, appartengono alla stessa seduta di registrazione ed il lavoro è assemblato in maniera unitaria e consequenziale. Musicalmente l’album si presenta come un’opera schizofrenica, suonata in maniera insolente e disinibita, che non a caso si apre, a mo’ di sberleffo, con il fracasso di fragorose risate (“Laughing”). La filastrocca scandita da voci rumorose di “Opposites” prelude alla traccia di apertura vera e propria, “Duva”, che ci lascia subito spaesati con i suoi suoni graffianti, i cori urlati e strampalati e una vena creativa molto vicina a Captain Beefheart o Zappa, condita da squarci di psichedelia, ammiccanti colorazioni flower power, e di art rock, con virate improvvise verso i Gentle Giant ma anche fugaci allusioni ai Jefferson Airplane. Non è facile inquadrare gli OHO in questo album come anche nei successivi e con lo scorrere dei minuti capiamo che è totalmente inutile farsi delle domande mentre è opportuno abbandonarsi alla follia musica senza opporre resistenza, accettando anche di sentirsi presi in giro dall’irriverenza di questi musicisti. Alcune tracce appaiono fin troppo rudimentali e scanzonate, come “Parts and Ponds”, urlata da una voce a dir poco sgraziata e ai limiti del punk, altre sono dei brevissimi sketch, come “The Unfortunate Frankfurter Vendor” o la bizzarra “Corrective Shoes”, altre ancora si presentano maggiormente elaborate, con bei momenti di poesia e liricità, come nella conclusiva “The Plague”, in cui, attraverso la melma e il modo di suonare abbastanza rumoroso, emergono suggestivi frammenti di Genesis. In linea generale tutto l’album è suonato in maniera istintiva, disordinata e sregolata, come se la band ci propinasse in maniera aselettiva tutto quello che gli possa passare lì per lì per la testa, e ne deriva un’accozzaglia variegata di momenti musicali che possono risultare esaltanti ma anche molto snervanti per il loro disordine e la loro frammentarietà. Si tratta di un disco spigoloso che ci fornisce uno strano prototipo di Garage Progressive a suo modo geniale e sicuramente divertente da ascoltare a volume alto, senza far troppo caso ai particolari.
L’album “Okinawa” fa parte di una trilogia assieme al successivo “Vitamin OHO” e all’inedito “Dream of the Ridiculous Band” del 1976 (disponibile in formato digitale sul sito della band). Le idee qui contenute avranno, nel corso della discografia della band, gli sviluppi più impensati, ma questa è un’altra storia, per il momento iniziamo pure da questo bel primo capitolo.


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Jessica Attene

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