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OSTA LOVE Good morning dystopia autoprod. 2013 GER

Immaginate di prendere i Pink Floyd di “The Wall”, i Beatles di “Abbey Road” e spruzzarci sopra un po’ di hard prog e un po’ di new prog degli ultimi anni. Fatti salvi gli aspetti personali e la voglia di metterci del proprio, potrebbe davvero essere qualcosa di interessante, potrebbe es-sere una miscela vincente. Probabilmente è quello che ha pensato Tobias Geberth, factotum del disco e one man band dell’occasione. Coadiuvato solo da Leon Ackermann alla batteria, Geberth è compositore, arrangiatore e esecutore per chitarre, tastiere, basso, voci e orchestrazioni.
Il CD è privo di booklet e di informazioni, il sito è assolutamente parco di dati, quindi ben poco posso dire sulla storia musicale precedente dell’autore e dovremmo, tutti, accontentarci di giudicare solo l’ascolto del lavoro che, a quanto pare, dovrebbe essere il secondo di una recente carriera.
L’estremamente riassuntivo concetto iniziale, in effetti, è quel che si ricava dall’ascolto dei dieci brani che formano il CD, tutti che si attestano su durate più tipiche della canzone piuttosto che su quelle dei brani progressive. Fa eccezione la sola “The Guards” che si muove fino a nove minuti e mezzo, però non spostando la tipicità musicale, ma proponendo semplicemente una più dilatata esposizione dei temi.
Quasi sempre le parti musicali risultano piacevoli e ben costruite. Basate prevalentemente sulle chitarre, sanno muoversi piuttosto bene anche verso aperture, tappeti e scorribande di tastiere i cui suoni viaggiano in bilico tra sonorità moderne e vintage. Le ritmiche sono piuttosto variabili, anche nel loro stile e raramente si va verso trame complesse. Le parti vocali risultano decisamente più lineari e semplici con forti tendenze al pop, con la voce che viaggia sempre sulle stesse note, dimostrando una modesta escursione rispetto alla sua ottava di lavoro. Ad ogni modo non si può certo parlare di una brutta voce o di eventuali stonature, solo di scarsa variabilità con voci quasi sussurrate, un po’ per l’esposizione da pop psichedelico voluta e un po’ per i limiti propri. Ci sono momenti in cui si fanno evidenti somiglianze con l’americano Phideaux.
Tra i brani da citare, oltre alla già segnalata “The Guards” che si pone a mo’ di riassunto dell’opera con i suoi forti temi chitarristici e il suo sviluppo tipicamente floydiano, l’interessante “Insomnia” dall’inizio di caldo e notturno blues psichedelico al finale acustico, tetro e strascicato, quasi melodrammatico. Interessante anche “Prologue”, specie nella sua parte tastieristica e la più movimentata “Red Sky” che fa a toccare anche temi jazzy e le cui ritmiche risultano maggiormente mosse e complesse.
L’impressione finale è quella di una musica con buone potenzialità e buona fantasia, ma troppo ferme in trame che faticano a decollare ed esprimere la personalità che l’autore potrebbe dimostrare, magari rinunciando a voler fare tutto in prima persona e affidando le parti vocali e le tastiere a figure dedicate. Aspettiamo novità, magari che quel tondo della “O” di Love trovi compimento, grafico e tematico.


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Roberto Vanali

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