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PIEL DE PUEBLO Rock de las heridas Disk Jockey 1972 (Viajero Inmovil 2005) ARG

L’Argentina degli anni precedenti la dittatura militare dei ’70 era un vero crogiolo di band che cercavano di fondere al rock di matrice anglosassone elementi latini e sperimentali, spesso aggiungendo anche testi dal contenuto di pungente critica sociale.
Non fa eccezione l’unico album – da poco ristampato su CD per la prima volta - dei Piel de Pueblo datato 1972, un quartetto dalla brevissima vita artistica i cui numi tutelari sono da ricercarsi nei padrini del rock inglese dei primissimi seventies.
A differenza di altre band conterranee, però (e mi vengono in mente Espiritu, Bubu, Crucis…), i Piel de Pueblo scelsero un approccio molto più diretto e solo occasionalmente sfociante nel rock progressivo, piuttosto rifacendosi alle esperienze dei contemporanei Deep Purple, Black Sabbath e Led Zeppelin e quindi di un hard-rock ancora fresco di conio.
Formato a Buenos Aires dal veterano “Pajarito” Zaguri (chitarra ritmica e voce, vero nome Alberto Ramón García), già sulla scena negli anni ’60 nelle fila dei Beatniks e La Barra de Chocolate, il quartetto era completato dall’infuocata chitarra solista di Nacho Smilari, la batteria di Carlos Calabró (questi ultimi li ritroveremo assieme nei ranghi dei Cuero un paio di anni più tardi) ed il basso di Willy Pedemonte.
Il breve album si apre con “Silencio para un pueblo dormido”, un brano molto diretto caratterizzato da una chitarra tagliente, un basso melodico e presente che tradisce la formazione jazz di Willy Pedemonte ed il cantato tipicamente hard-rock di Zaguri, che però evita cautamente di avventurarsi troppo al di sopra del pentagramma, nelle zone abitualmente frequentate da Plant o Gillan.
“La tierra en 998 pedazos”, brano di ispirazione apocalittica e dalla durata insolita, inizia in modo ancora più archetipico con un riff chitarristico insistente, ma l’intermezzo riflessivo ed il pianoforte trattato (unica apparizione di uno strumento a tastiera) può richiamare alla mente i gruppi di “pop italiano” dell’epoca.
“Jugando a las palabras” è puro hard-blues alla Cream; il cantato aspro è vicino alle interpretazioni vocali di Derek Shulman, ma la similitudine è certamente casuale, poiché gli ispiratori dei PdP sono evidentemente da ricercarsi altrove.
Stranamente “Para tener un poco mas” accentua il sentore Gentle Giant grazie ai ricami di violino elettrico dell’ospite Héctor Lopez Furst, ma il cantato è tipicamente latino e forse l’accostamento da fare è con i nostri Quella Vecchia Locanda: per la prima volta la chitarra non è protagonista incontrastata ed il risultato ci guadagna parecchio.
I brani rimanenti poco aggiungono allo schema consolidato, tra chitarre sature e pedali wah-wah, addirittura si sfiora in un paio di occasioni il boogie-rock ed il R’n’R propriamente detto, ultima menzione per la doppia chitarra solista che ci fa apprezzare l’assolo bidimensionale che nobilita “La pálida de Nacho”.
Cosa aggiungere… un documento d’epoca sicuramente valido, altrettanto sicuramente dal suono datato e con un legame indissolubile al periodo storico di pubblicazione; interessante se volete prendervi una pausa da dischi cerebrali, raffinati o concettuali.

 

Mauro Ranchicchio

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