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PREMIATA FORNERIA MARCONI A.D. 2010 - La buona novella (opera apocrifa) Aerostella / Edel 2010 ITA

Chissà se 40 anni prima, mentre registravano “La buona novella”, quei giovani musicisti che di lì a poco sarebbero andati a formare la Premiata Forneria Marconi avevano lontanamente previsto che anni dopo quella prima collaborazione con De André, cui altre sarebbero poi seguite, avrebbe poi fruttato una vecchiaia ricca di spunti da sfruttare. Non voglio accusare nessuno di speculazioni, né di sciacallaggio, ma di certo il connubio col cantautore genovese è stato per la PFM negli anni molto utile e fruttuoso, tanto che con questo siamo arrivati al terzo album (in cui compaia il nome della PFM) basato sulle sue canzoni (e aggiungiamoci anche la riproposizione di “Creuza de Mâ” ad opera di Mauro Pagani, va…). La differenza coi due live precedenti sta, appunto, nel fatto che questo non è un live, bensì una rilettura, una reinterpretazione libera delle musiche di questo storico album. Album che, per quanto mi riguarda, posseggo fin da poco dopo la sua uscita e che, nel corso degli anni, ho ascoltato decine e decine di volte. Pur non facendo salti di gioia per l’ennesimo accaparramento del repertorio di De André, avevo accolto comunque con istintiva curiosità la notizia dell’imminente uscita di questo disco.
Non va sottovalutata, prima di iniziare, la dicitura “opera apocrifa” usata come sottotitolo di quest’album: si tratta a tutti gli effetti di un album della PFM, con musiche della PFM, ispirate alle musiche originali dell’album, di cui vengono conservate quasi tutte le linee melodiche, ma con nuovi arrangiamenti. Il gruppo prende quindi quel saporito ingrediente basilare che è rappresentato dai testi di De André e lo utilizza per preparare un piatto del tutto nuovo, senza alcun obbligo di ripercorrere tutte le mosse originali, a partire dall’utilizzo delle parti corali fino al mood del tutto stravolto di alcuni brani. L’apertura dell’album quindi non è affidata all’overture del “Laudate Dominum”, bensì allo strumentale “Universo a terra”, una sorta di continuazione di quanto il gruppo ci aveva proposto col suo bellissimo “Stati d’immaginazione”. Parte quindi “L’infanzia di Maria”, abbastanza simile all’originale ma con la mancanza, come detto delle parti corali che scandivano gli intermezzi del brano. Il cantato di Di Cioccio, duole dirlo, lascia parecchi rimpianti a chi conosce questo bellissimo praticamente a memoria, ma le brevi parti strumentali che qui, come in tutti gli altri brani, sono stati inseriti ex-novo, ripagano in parte questo evidente deficit. Bella la successiva “Il ritorno di Giuseppe”, caratterizzata da un Mussida che, chitarra e voce, dà il meglio di sé… a parte un marchiano, ancorché quasi impercettibile, errore nelle liriche (“le colmarono i fianchi” non è la stessa cosa di “si colmarono ai fianchi”).
Brani come “Maria nella bottega di un falegname” e “Il testamento di Tito” sono presenti nelle scalette live della PFM ormai da diversi anni, quindi sono brani che nella loro versione PFMizzata sono ormai cresciuti ed hanno trovato una loro vita autonoma e compiuta; così purtroppo non è per altri pezzi come “Il sogno di Maria”, “Ave Maria” o “Via della croce” in cui il gruppo decide di reintepretare in maniera che personalmente trovo discutibile. La prima canzone diventa quindi quasi un pezzo funky/reggae, con una chitarra molto Knopfleriana, mentre nella seconda sembra di ascoltare piuttosto una reintepretazione di “Una rotonda sul mare”. Nella terza canzone le prime strofe vengono recitate in maniera enfatica da Di Cioccio con lo scopo di accrescere la drammaticità di questo pezzo così carico di tensione, ma col risultato di sminuirla decisamente, a mio modo di vedere; era ovviamente difficile per il buon Franz mantenere la tonalità bassa tenuta da De André e quindi probabilmente per questo si è optato per questa soluzione. Intenzione apprezzabile… ma il risultato lascia a desiderare. Da censurare anche il piccolo accenno di rag delle ultime strofe.
Il valzer di “Tre madri”, tutto sommato, non è male, specie per le belle parti strumentali, mentre del tutto spiazzante il “Laudate hominem, tradizionale chiusura dell’album e ovviamente qui riletto senza l’apporto del coro. Spiazzante non vuol dire necessariamente da bocciare, intendiamoci; il gruppo ha dato un’interpretazione più rock/blues a questo brano che, in assoluto, non sfigura… ma lo shock è grande, all’inizio. Casomai è l’intermezzo strumentale che questa volta non è che convinca appieno…
In conclusione: l’album non è male… anzi… nel complesso è un bell’album se preso così com’è, ovvero un disco della PFM, anche se utilizza materiale altrui. Scordatevi l’originale… cancellatelo dalla vostra mente, non ci pensate proprio: sarete così in grado di apprezzare questa “opera apocrifa”, pur con qualche caduta imbarazzante cui ho accennato in precedenza ma, con questa premessa, potrete valutarla con più serenità. Resta in piedi la cosiddetta questione morale, se sia condivisibile il costante sfruttamento del patrimonio musicale di De André. E’ vero che, se c’è qualche artista autorizzato a farlo, tra questi una è senz’altro la PFM, ma mi auguro che la cosa davvero finisca qui, almeno a livello discografico.



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Alberto Nucci

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