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ANTHONY PHILLIPS AND ANDREW SKEET Seventh heaven Voiceprint 2012 UK

Tra gli ex Genesis (ormai direi che lo sono tutti e lo saranno per sempre) Phillips si è sempre distinto per un percorso fatto di estrema coerenza, niente strizzate d’occhio alle classifiche, poco o niente pop, poco o niente rock, ma una musica personalissima fatta di colori e tinte evanescenti, tutto mosso con la punta delle dita, con composizioni che spesso sono arrivate a vertici di grande, grande musica, come con “Tarka” o con l’eccezionale esordio di “The Geese and the Ghost”. Completamente disinteressato allo show-business, relegato nel suo caldo e sicuro cantuccio, conscio di avere una riverenza e una gratitudine eterna da chi iniziò ad apprezzarlo 40 anni fa e ha continuato ad amarlo, nonostante non ne abbia mai assaporato la fisicità in tour o a diretto contatto. Ma proprio grazie a questa sua riservatezza, questo suo essere schivo, che meglio si è sempre apprezzato quel suo mondo ricco ed emozionale celato nei molteplici seppur saltuari lavori.
E proprio tutti i suoi lavori, per me, sono sempre stati un doveroso acquisto, certo di non trovare null’altro di quanto ti aspetti. Talvolta le opere saltano fuori all’improvviso, talvolta se ne comincia a parlare mesi e mesi prima, creando una fremente attesa, dalle aspettative in crescita verticale. Questa volta è addirittura dal 2008 che si accennava ad un nuovo lavoro e ora, con il disco in mano, leggo le note chiarificatrici. In quell’anno, la UPPM UK (Universal Records) commissionò all’ex Genesis un disco di musica atmosferica indirizzata alla sonorizzazione di immagini, affiancandogli il compositore – arrangiatore Andrew Skeet che, oltre alla propria carriera nell’ambito orchestrale, opera nel campo della pop music con artisti tipo Sinead O'Connor e George Micheal. Il primo accenno di questa collaborazione risale al 2011, quando uscì il disco “First Light”. Ma per assaporare il grande risultato della sinergia musicale tra i due, l’opera di riferimento è questa.
In un doppio CD ci può stare una montagna di musica ed è doveroso dire che i due autori, portando ciascuno la propria esperienza, riempiono in modo esemplare gli spazi a disposizione, dimostrando di avere idee anche di quantità, oltre che di indiscutibile qualità.
La prima sorpresa, devo dire tra le tante che il disco offre, è già nell’opener “Credo In Cantus”: pianoforte, archi, atmosfere maestose eppure commoventi, leggere e suadenti e, su tutto, una splendida voce che decanta il tema con una lirica evocatrice di temi classici e operistici, puntualizzando forme a la Delibes o a la Debussy. Forse potremmo già fermarci qui per essere pieni di soddisfazione e far rotolare il resto del disco senza un attimo di noia o di ripetitività, ma ogni frammento cela sorprese e atmosfere degne di nota, specie quando la chitarra acustica segna il tempo ai violini donando ricchezze di linguaggio magistrali.
Il doppio lavoro, prevalentemente strumentale, consente un excursus di sonorità elaborate, ma mai complesse e ogni brano può vivere a sé, pur facendo parte di un concept definito. Troviamo sezioni con evidenti richiamo alla musica mediorientale, arpeggi intimistici che non possono non rimandare ai primi vagiti genesisiani, sprazzi che odorano di soundtrack, altri maggiormente puntanti sull’ambient e forse più idonei alla commessa dell’etichetta discografica
Una piccola serie di appunti, mi sento comunque di doverla fare agli autori e alla produzione.
Quello che più o meno direttamente salta all’orecchio è che gli autori si sono cimentati in un genere, che sicuramente amano e che consapevolmente conoscono, ma a cui – a tutti gli effetti – sono un po’ in prestito. La mancanza di un reale background classico si avverte soprattutto nel gesto compositivo, che ha saputo sì far fronte ad argomenti affini, ma non spiccatamente classici, come invece – parrebbe – fosse l’intento. In questo, credo abbia giocato anche una scelta della produzione di non dare alle composizioni il respiro lungo e articolato di un’opera a suite, ma di prediligere frammenti singoli leggibili anche in maniera autonoma. Ovviamente questo non va a penalizzare la qualità delle composizioni, ma semplicemente l’organicità del lavoro. Altro piccolo appunto che si può muovere è la povertà di note sui brani, su chi li abbia composti, sulle scelte di arrangiamento, tenuto conto anche una parte delle tracce deriva da “Field Day”, lavoro acustico di Phillips, datato 2005 e che qui ritroviamo con un respiro completamente diverso, dovuto all’apporto dei settanta elementi dell’orchestra.
E dallo sguardo triste di Ant, segno di chi ha rinunciato ad essere qualcosa per essere qualcos’altro, pur di non farsi divorare da un ingranaggio, esce un messaggio, che muove come una lieve onda e che ha saputo incanalare in un mondo musicale unico, fatto di solitari sussurri e di palpabile emotività.


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Roberto Vanali

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