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POLYSORBATE MASQUERADE BAND Chronicles of bubbledroid ClayLabs 2006 (ClayLabs 2012) USA

Americani! E si sente! Già dai primi secondi… Bastano pochi attimi, dopo aver premuto il tasto play del lettore, per riconoscere quello stile di prog a stelle e strisce che velocizza il rock sinfonico, partendo dalle esperienze britanniche di Yes e Gentle Giant, con tanti interscambi tra chitarra e tastiere, variazioni di tempo, ritmi spediti ed enorme vivacità. Impossibile non pensare ai paladini statunitensi degli anni ’70, quelli del sottobosco che magari non hanno avuto il giusto risalto mediatico, ma che i cultori del prog ben conoscono. Stiamo parlando di artisti che rispondono ai nomi di Yezda Urfa, Mirthrandir, Happy the Man, Pentwater, Cathedral, Easter Island, Ethos, Starcastle. Sembrano infatti questi i gruppi che possono essere presi come termine di paragone per la Polysorbate Masquerade Band del chitarrista Clay Green, che ha dato vita a “Chronicles of Bubbledroid” nel 2005, insieme al bassista e tastierista Edward Richard e alla batteria e agli arrangiamenti di Bubbledroid (che altro non è che un computer).
Il CD, interamente strumentale, è stato di recente ristampato e possiamo così ascoltare questo lavoro pienissimo di musica elettrizzante, attraverso tantissimi frammenti sonori lontani dalla grandeur, dalla pomposità e dalle composizioni chilometriche del rock sinfonico più celebre. I quasi ottanta minuti del disco, infatti, sono suddivisi in ben ventitre tracce (le prime dodici formano l’album originali, le successive undici sono bonus tracks) e solo di rado si raggiungono minutaggi elevati, mentre non si disdegna affatto di proporre brani brevissimi anche di un minuto o meno! Si punta soprattutto su una grande vivacità strumentale e tutto ciò prevede alle fondamenta i timbri vintage dell’organo B3 e della chitarra elettrica con effetto wah-wah, ma queste basi vengono poi arricchite attraverso una attenta cura degli arrangiamenti e inserendo anche suoni più moderni. Si parte con “Saturn’s orbit”, sei minuti di fuoco, pieni di intrecci strumentali, tempi dispari e sconvolgimenti di tempo e di atmosfera, come nella migliore tradizione del prog sinfonico. Ma già con la seconda traccia, “Frog boy”, caratterizzata da due minuti e dieci secondi a cavallo tra ELP e Vanilla Fudge, cominciano quei brani fulminei. Si avverte subito il lavoro un po’ amatoriale e il sound sporco, ma bisogna anche ammettere che queste imperfezioni donano ulteriore calore alla proposta di Green. Le sue scorribande sonore sono infatti godibilissime e si salta da un pezzo all’altro mantenendo una piacevolezza d’ascolto sempre altissima in una immersione totalmente Seventies. I ricami gentlegiantiani di “Time Sun” si ripeteranno in diverse altre tracce e spesso e volentieri si uniranno allo yessound in un connubio che tanto ha attecchito negli States negli anni ’70 e che è stato portato avanti dai gruppi citati in precedenza.
A quanto descritto possiamo aggiungere qualche inflessione jazzata qua e là, i timbri dell’Hammond à la Brian Auger sulla breve e gustosa “Groovey paste”, i bei contrasti di chitarra elettrica acida e pianoforte in “Beeple on top of a bridge”, qualche divagazione melodica riuscitissima, per una ricetta ricca di note e di ingredienti, i cui risultati possono far gola a tantissimi appassionati.


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Peppe Di Spirito

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