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PAVLOV'S DOG Prodigal dreamer Rockville Music 2018 USA

Se andiamo a dare un’occhiata alla discografia accreditata ai Pavlov’s Dog, vediamo una notevole mole di pubblicazioni, tra live e album in studio. Diciamoci però la verità: gli album dei Pavlov’s Dog sono solo due, ovvero quelli storici che tutti conoscono, usciti nel 1975 e 1976; tutti i successivi non sono che pallidi… anzi, pallidissimi e sfocati tentativi di riesumazione della storica sigla, quasi tutti provenienti da session inedite, live, ripescaggi vari e bootlegs. La band si è cominciata a sfaldare già all’indomani dell’album d’esordio (tanto che nel secondo si è dovuto ricorrere alle ospitate di Bill Bruford e Andy McKay) e solo Surkamp e Rayburn hanno continuato a collaborare per un certo periodo, cercando fondamentalmente di crearsi una carriera sul ricordo del successo di “Julia” (che anche i sassi si ricordano).
Oggigiorno è rimasto solo Surkamp a portare avanti la storica sigla. La particolarissima e singolare voce, autentico marchio di fabbrica del gruppo, si è ormai un po’ infiacchita ma è ancora abbastanza riconoscibile e ogni tanto qualche vibrante acuto ci riporta indietro di 43 anni; è solo un attimo, ma a volte anche un attimo può bastare a darci emozioni piacevoli. L’operazione nostalgia viene ovviamente completata dalla cover dell’album che ripropone il cane già presente sulla copertina di “Pampered Menial”, un po’ più malconcio magari e -povera bestiola- con un’espressione corrucciata.
Ad affiancare lo storico vocalist non c’è alcun altro membro dell’epoca; c’è la moglie di David, Sara, che si occupa dei cori e di qualche parte di chitarra e c’è un folto numero di musicisti che non passerà certo alla storia per il proprio apporto e per la personalità mostrata su quest’album. L’eccezione a quanto appena affermato c’è, comunque, ed è rappresentata dalla violinista Abbie Steiling il cui strumento percorre in lungo e in largo queste 13 canzoni dando loro colore e caratterizzazione. Il resto, a parte qualche timida parte di chitarra qua e là e un discreto basso, non è certo memorabile, come dicevo.
Le canzoni… aaaah… le canzoni… cosa ci si poteva aspettare? Una nuova “Julia”? Ma per favore…! Qui abbiamo una serie di canzoncine, alcune delle quali pure piacevoli, in cui il rock del primo album non è che un lontanissimo ricordo. In effetti Surkamp non ci prova nemmeno a riproporre qualcosa di simile, mantenendosi su un profilo abbastanza basso, con canzoni dalle tonalità ed umori malinconici, sottolineate dalle note del violino e da una ritmica ben poco fantasiosa. Una piccola eccezione è la seconda traccia “Hard Times”, dalla ritmica brillante e caratterizzata anche da un discreto Hammond.
L’ascolto dell’album è globalmente abbastanza piacevole, ad ogni modo, forse compromesso dall’eccessiva lunghezza dell’album dal quale forse sarebbe stato opportuno depennare un paio di titoli. Basta comunque non aspettarsi chissà che cosa ed apprezzare queste canzoncine dal forte approccio folk, comunque dignitose e su cui non è giusto accanirsi eccessivamente.



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Alberto Nucci

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