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THE QUARTET Illuminated Helium Records 2007 UK

Quando un gruppo fa base nella città di Canterbury e tra i principali ispiratori ha Davis, Monk, Beatles, Zappa, Pink Floyd, Egg e Soft Machine diviene di immediato interesse per il sottoscritto. Se poi, una volta ascoltati, l’interesse si tramuta in qualcosa d’altro, ad esempio piacere, è il massimo.
La storia ci dice che un gruppo di jazzisti con un notevole bagaglio di esperienze che vanno dalle colonne sonore al jazz, dal pop al rock, si riunisce sotto il nome The Quartet con la produzione di Chris Huges (Adam and the Ant, Paul Mc Cartney, Tears for Fears). Per la precisione Jack Hues (chitarra), Sam Bailey (tastiere), Tom Mason (basso), Dave Smith (batteria), Paul Booth (sax) e Raven Bush (violino), considerato che il nome del gruppo prevede un quartetto, ecco che gli ultimi due sono in realtà segnati come ospiti, ma specie il sassofonista, attualmente anche nella band di Steve Winwood ed uno dei più ricercati session man inglesi, ha molto spazio.
Il jazz progressivo che fuoriesce dal disco è di ottima qualità e fattura, di stampo moderno, ma al contempo trascina dentro di se tutte le belle qualità dei suoni classici del genere, dando così l’idea di una musica effettivamente senza tempo e soprattutto senza scadenza.
Cinque brani piuttosto lunghi e uno breve per 48 minuti di musica dove i due compositori Hues e Bailey riescono a creare atmosfere trasognate anche con elementi etnici e folk. Importanti i richiami al Brit-Jazz, con bei richiami canterburyani, Weather Report, Gong, Mahavishnu, notazioni minimali alla presenza dello spettro di Thelonious Monk, ma anche ariose congetture alla Jasper Van't Hof's/Philip Catherine o alla John Surman o i magici intrichi di Terje Rypdal.
Nell’ascolto da segnalare il perfetto “botta e risposta” di sax e chitarra su “Waltz for Mel”, le note di piano nella picaresca “Fallujah”, il lungo incidere di solitarie note di sax di “Miles Off”, il malato Funky Blues di” Brahms Blues” dove tutto è reinventato o magari va letto allo specchio come la scrittura di Leonardo.
Credo sia piuttosto difficile distinguere questo lavoro da uno analogo degli anni ’70. Certo questo è per noi un dato essenzialmente positivo, ma può essere letto anche in maniera spersonalizzante. Invece il valore del disco c’è ed è alto e quindi vi esorto a cercarlo.

 

Roberto Vanali

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