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QIRSH Aspera tempora - parte 1 Lizard Records 2020 ITA

Sono arrivati al terzo album i savonesi Qirsh, fase molto importante in ogni discografia, tentando sempre di portare avanti una proposta che non sia facilmente inquadrabile nel classico contesto commerciale. I sette musicisti coinvolti affrontano il delicato ed ampio tema delle paure umane viste nel loro complesso, da quelle adolescenziali a quello della solitudine, scegliendo di muoversi in sonorità che spesso urtano davvero la psiche. La musica e i testi tendono a strisciare subdoli, ma sarà un’opinione strettamente personale se l’intento risulta alla fine colpire il bersaglio o meno.
“Rumors” inizia con batteria ossessiva in stile “Pretty Woman”, anche se ovviamente il genere è totalmente diverso, ci mancherebbe! Le tastiere suonano oscure e solenni come le vetrate dalle forme indistinte riportate in copertina, mentre le tante voci – i rumors del titolo, i pettegolezzi – brulicano subito accompagnati da risate di scherno. La batteria continua davvero fastidiosa, a questo punto volutamente. Si tratta di quasi diciotto minuti, seguendo stili che più al prog guardano in un primo momento al crossover, probabilmente anche per l’uso marcato del basso di Andrea Torello, evidenziando il rancore che può nascere quando delle voci creano una vera macchina di fango fin dall’infanzia. A dire il vero, il suono delle tastiere rendeva ancora più perplessi, perché si era scelto in principio qualcosa tipico delle vecchie balere. Poi, pian piano, le sonorità fortunatamente variano, tornando nell’ossessione delle voci di cui sopra. Quando si riprende a cantare, francamente, il testo diventa (non si sa se anche questo sia voluto) parecchio infantile, mischiando ad effetto epoche contadine, soldati e santi, minacciando che queste malelingue saranno trovate una ad una, su di loro scenderà la notte e quindi… tremate! L’atmosfera complessiva sarebbe concepita anche bene, ma c’è qualcosa che purtroppo banalizza ciò che invece sarebbe dovuto suonare all’orecchio come molto profondo. Chissà, forse il problema sta nella scelta dei suoni troppo “trasparenti”, se si può sfruttare questo accostamento forzato a delle sonorità…
“Aer Gravis” parla della paura del primo tuffo, un attimo lunghissimo di vuoto, che poi diventa qualcosa di meraviglioso, dando la sensazione di volare. Qui l’equilibrio sonoro appare nettamente migliore, fondendo le voci con il groviglio musicale per tutti i sei minuti abbondanti. Bello il pianoforte che apre “Quel momento”, in cui una donna chiede al proprio compagno perché lui non abbia mai scritto una canzone per lei. In questo caso le voci si fondono ancora di più con gli strumenti, che diventano sempre più pastosi e indistinti, descrivendo una nuova angoscia, quella che sorge a chi l’ultima volta ha scritto una canzone per una donna in quanto la loro storia era finita. E perciò lui si augura che quel momento non venga mai. Anche qui, l’immagine delle vetrate si ricollega a queste sensazioni da antico (auto)castigo ecclesiastico. Interessante la relativamente breve “Hurt”, strumentale giocato su un basso davvero presente, batteria eclettica, effetti ed esplosioni quasi “cosmiche”; una composizione che vuole mettere in musica la sgradevole sensazione in cui si vuol combattere in anticipo dolore e morte, finendo così per aver paura… di aver paura. Immancabili le tastiere solenni e urla diffuse. Tre minuti scarsi, a cui succede più o meno il medesimo minutaggio di “Anansi”, ancora con un bel gioco di basso assieme a chitarre che finalmente si fanno sentire. Il cantato di Pasquale Aricò stavolta è ben definito, seguendo uno stile cantautoriale convincente che però dura poco, come la canzone stessa che viene subito troncata. A proposito di ambientazioni da chiesa, i dodici minuti di “Oremus” chiudono questa prima parte parlando delle religioni; basate sulla paura come risposta costruita per le varie malattie dell’anima, le religioni stesse vengono quindi viste nel loro complesso come una superstizione che con la sua ossessività annulla gli uomini. Prima si scandiscono le frasi – che terminano tutte con parole tipo devozione, compulsione, costrizione, ecc… –, poi si passa a una lettura iper veloce e quindi all’immancabile parte strumentale in cui tutto rimane sospeso, accompagnata come sempre da urla di dannati che sembrano sprofondare all’inferno. C’è poi una traccia fantasma di otto minuti, continuazione di quella immediatamente precedente e che riprende il testo della composizione d’apertura in stile pseudo gregoriano, continuando con stralci di testo estrapolati dai brani successivi. A suo modo, una scelta originale.
Se questa risulta essere la prima parte, sarà lecito (a costo di apparire lapalissiani) attendersi il seguito per poter dare un giudizio completo sull’intero lavoro. Per adesso, può essere lodata la ricerca di originalità e per aver racchiuso il prodotto in una interessante confezione digipack corredata anche da varie didascalie per ogni brano. Il contenuto musicale in sé, invece, a volte lascia un po’ perplessi. Di certo, la band ha fatto molta strada in campo progressivo rispetto all’esordio datato addirittura 1997; si vedrà se in futuro si potrà parlare di qualcosa che nella sua interezza si è alla fine rivelato davvero interessante. Si attende quindi la prossima uscita. O magari le prossime, chi lo sa?



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Michele Merenda

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