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RAUSCH Rausch autoprod. 2009 USA

Il fatto è qui: possiamo giudicare negativamente un disco che non è prog solo perché ci aspettavamo un disco prog? Difficile risposta. Insomma, mia moglie lo ha apprezzato, non è un buon segno. Mia moglie è abituata a cose leggerine, leggerine, quando sente prog scappa a gambe levate…
Allora Rausch è, vedendo la foto, un giovanotto. È certamente un polistrumentista bravo e naturalmente dotato, canta bene, con una bella dinamica e un’escursione non da poco, ma alla domanda: “Quali sono i tuoi ascolti e le tue fonti di ispirazione?” cosa potrebbe rispondere? Vediamo dal suo “MySpace” che in una lunga lista di nomi, solo i Pink Floyd sarebbero riconducibili al progressive. Tra i tanti c’è Ray Charles, per carità grandissimo musicista, ma diametralmente opposto al progressive.
Ma non facciamoci traviare dalle impressioni e analizziamo i fatti: questo disco Doug Rausch lo ha composto, arrangiato, prodotto, inciso, cantato e suonato interamente, fatta eccezione per il chitarrista che ha coperto l’81% delle parti, Gary Wehrkamp (sì, proprio quello di Shadow Gallery) e il batterista Joe Nevolo. Qui parte dei problemi, perché Wehrkamp non suona una sola nota progressive e, per tutto il disco, si piazza tra AOR, hard rock e power rock americano, rimandando spesso al gruppo madre, a Boston, Styx et similia. Non da meno il batterista, secco e assai più vicino ad un Porcaro che ad altri.
Nove brani intorno ai 4 – 6 minuti, discretamente movimentati e mai noiosi, ma anche dove i brani presentano più cambi, non ci troviamo di fronte a forme tipicamente progressive, piuttosto ad un potpourri di diversi spezzoni rockeggianti o poppeggianti.
Qualche dettaglio: “B.P.M.S.” persino più vicina ad una ballata country che ad un modesto pop. Il suo andazzo tranquillo e i suoi falsetti non riescono a farla arrivare neppure alla soglia della digeribilità. Più interessante la tenue e dagli arpeggi a tratti Zeppeliniani, “Ode To Pain” brano dal piglio soul intimistico e melodicamente più ricco. “Minimalism” è un pop che potrebbe stare in qualsiasi disco di Elton John o persino di Robbie Williams, quadrato, quadrato, rotolante, rotolante. Qualcosa di più scoppiettante e intrigante in “Survival Instincts” in bilico tra Queen e Styx o nell’opener “No fair” dove la teatralità del movimento musicale incide positivamente.
Definirlo un brutto disco è assolutamente sbagliato, semplicemente è un disco che non ha il prog nelle intenzioni, non lo è soprattutto mentalmente e quindi non mi sento di bocciarlo solo per questo. Diciamo che se l’autore è, o ritiene di essere, progressive dovrà dimostracelo con un prossimo lavoro, purché la cosa gli interessi. Per ora la sua musica è destinata più ad un ascoltatore pop rock che ad un progster.


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Roberto Vanali

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