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THE REDZEN Void Ma.Ra.Cash 2011 ITA

Ma che gran bella sorpresa questo quartetto italiano! Come si legge nel loro sito, il gruppo si lascia andare a 54 minuti di autentico instrumental fusion-progressive rock, con una vivacissima sezione ritmica, chitarre potenti e ricchissime fasi tastieristiche, sfruttando influenze che in sede di recensione sarebbero troppo numerose da elencare.
Alcuni hanno parlato di un album di jazz-rock, ma la distorsione chitarristica e l’aggressività di diversi momenti fanno pensare a quell’evoluzione del fenomeno dovuta a lavori fondamentali come “Introspection”, “Uncertain Therms” e “Parallax” di Greg Howe, in cui il guitar-hero di colore approdava ad una vera e propria heavy fusion. Da lì, un nuovo approccio tout-court, sancito da “Tilt” dello stesso Howe con Richie Kotzen e da una nuova pletora di artisti. I RedZen non sono artisti di primo pelo: il chitarrista Ettore Salati ha collaborato con importanti nomi italiani e stranieri come Alex Carpani, David Jackson (Van der Graaf Generator, Peter Gabriel), Karl Potter (Herbie Hancock, Charles Mingus) e Aldo Tagliapietra (Le Orme), suonando anche su due album della prog band The Watch. Stessa cosa per il batterista Roberto Leoni, addirittura tra i fondatori degli stessi The Watch, con cui ha inciso tre album in studio, un live album ed un dvd live. I due restanti componenti, il tastierista Angelo Racz (produttore dell’album) ed il bassista Nicola Della Pepa, hanno una prestigiosa formazione musicale e collaborano spesso a dei side-projects.
I brani sono parecchio spontanei e se non fosse per un suono troppo pulito (soprattutto della batteria) si potrebbe persino pensare ad una esibizione in presa diretta. Le iniziali “Cluster” e “Hot wine” sono avvincenti e catturano immediatamente l’ascoltatore, passando per esponenti di spicco della musica strumentale come Ozric Tentacles, Weather Report, Øresund Space Collective, Mastermind e Liquid Tension Experiment. Alla fine, dopo tanti nomi, quello che sembra sintetizzare tutto sembra appartenere chiaramente agli americani Djam Karet, vero punto di riferimento degli italiani. Forse in alcune fasi i nostri si basano su degli stereotipi freddini, ma quando si lasciano andare ai (numerosi) momenti solisti diventano assolutamente trascinanti.
Vi è un unico brano cantanto, “Alexa in the cage”, con la presenza di Joe Sal; episodio abbastanza trascurabile, nettamente migliore nella versione strumentale che compare come bonus-track. In “Slapdash dance” compare ad un certo punto un sitar che gareggia con i sintetizzatori di Racz, per poi lasciarsi andare ad una tortuosa fuga psichedelica, altro chiaro riferimento della band. “Into the void” potrebbe essere ballata col proprio partner in un momento di meditativa passione, pregna com’è di atmosfere accattivanti e mai stucchevoli (chi ha nominato Bill Berends?). “Who’s bisex” parte con un tema pianistico quasi funky e si rivela un’esecuzione estremamente divertente nei suoi virtuosismi. Assoli di grande profondità nelle atmosfere notturne di “Return to Kolkata”, mentre “Spin the wheel” conferma quanto di buono si è sentito per tutto l’arco del lavoro: musica impegnata ma allo stesso tempo spensierata, in uno stile tipicamente italiano potremmo dire, sempre con trovate che potrebbero essere già sentite ma che non annoiano mai.
Se i RedZen avranno in futuro la capacità di osare di più e magari affideranno i propri pezzi ad una produzione meno patinata (come già emerge, del resto, nei bellissimi solismi di Salati), parleremo di una splendida realtà nazionale da accostare a nomi eccellenti come Assolo di Bongo, DFA ed Accordo dei Contrari.



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Michele Merenda

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