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ROAMER What the hell Czar Of Revelations 2018 SVI

I Roamer sono un quartetto svizzero che deve il proprio nome al marchio di orologi il cui stabilimento di Solothurn faceva da sfondo alla sala prove nei primi anni di vita della band; il cantante, tastierista ed autore di testi e musiche è Samuel Blatter, eclettico musicista che non ha timore di spaziare dal rock alternativo al jazz tradizionale, dai quartetti d’archi e ai cori femminili. Se le premesse stuzzicano la fantasia, la musica suonata dai Roamer, per quanto eterogenea, può essere però classificata come un rock alternativo senza troppi fronzoli, che fa delle influenze Radiohead, Nine Inch Nails, Björk e Sonic Youth i principali ingredienti della proposta. Le origini della formazione, che contempla, oltre al citato Blatter, Simon Rupp alla chitarra, Christian Weber al basso (impegnato in diversi altri progetti tra il jazz e l’elettronica) e Martin Stebler alla batteria, risalgono al 2008, quando fu assemblata dal leader con l’intenzione di fondere la passione per gli artisti citati con un’attitudine per il jazz e l’improvvisazione. Purtroppo, l’attività dovette subire una serie di stop a causa di seri problemi di salute del fondatore, fortunatamente superati, ma se per l’esordio di piena durata si è dovuto attendere ben dieci anni, l’attesa fu mitigata da tre EP pubblicati tra il 2011 e il 2015.
Mettiamo subito in chiaro una cosa: la musica dei Roamer non è definibile progressive rock, né è riconducibile a qualche filone periferico che possa sfiorare il genere anche tangenzialmente; detto ciò, parte dei brani qui contenuti possiede una ricercatezza nella struttura e negli arrangiamenti che può giustificare l’attributo di “art-rock”, ma è altrettanto evidente che una buona metà del disco si allontana drasticamente da questo concetto, tanto da aver richiesto da parte mia una certa ostinazione e stoicismo per portare a termine l’ascolto. Non aiuta il fatto che l’album si apra con un brano, eloquentemente intitolato “Open my pants”, scritto per un evento incentrato sull’estetica della pornografia, che abbina ad un testo sessualmente esplicito una combinazione tra beat elettronici asimmetrici ed una chitarra altrettanto irritante. Superando la tentazione di terminare qui l’ascolto, i due brani successivi si rivelano almeno più equilibrati: “Today”, basata su arpeggi di piano e la title-track che però vira su un indie-rock prosaico e un po’ scontato, qualcosa che i Radiohead abbandonarono già nel 1993 all’indomani di “Pablo Honey” e i Blur poco più tardi; non basta il finale riflessivo a salvarla… occorre arrivare all’accoppiata “Sick enough” e “Bye bye baby” per apprezzare finalmente le capacità di scrittura (e di performer) di Blatter: entrambe rallentano finalmente il ritmo, la prima è una ballata personale, sincera e sofferta, la seconda rarefatta e vagamente jazzata. Il ritrovato interesse è destinato però a scemare nuovamente e drammaticamente nella seconda parte del lavoro, tra brani anonimi come “Touchscreen” ed episodi al limite del fastidioso, come “Rebel” e “Number”, quest’ultima menzionabile solo per la ripetizione ad nauseam dell’inciso “wannafuck up yourass”. La chiusura risolleva parzialmente le sorti: la piacevolissima “Sunday morning” conferma che solo moderando le escandescenze la band riesce a produrre qualcosa di valido… troppo tardi, mi verrebbe da dire: forse l’album è finito nelle mani sbagliate, ma trovo poche valide ragioni per consigliare questo “What the hell” all’ascoltatore di rock progressivo.



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Mauro Ranchicchio

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