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THE RICK RAY BAND Dark matter halo Neurosis Records 2019 USA

Questo è il trentaquattresimo album per la band del chitarrista Rick Ray, che si destreggia anche alle tastiere e dietro il microfono. Una compagine che come già detto in occasione del precedente album ha aperto concerti per gli artisti più disparati. I tempi delle uscite discografiche si vanno (per fortuna?) pian piano allungando, anche se la proposta rimane più o meno la medesima. Compagni di avventura sono Kip Volans alla batteria e alle percussioni, Dave "Shaggy" Snodgrass al basso e alla voce, oltre al fido Rick "Sarge" Schultz al sax e al clarinetto basso. È proprio quest’ultimo ad essere l’alter ego del protagonista, mettendosi anzi in primo piano con i suoi assoli sia nella title-track d’apertura che su “Into The Past”, brani in cui il rock n’roll duro viene in entrambi i casi alternato a delle fasi blues. “Society Of Strangers” – aperta da begli arpeggi e poi basata su riff di rock psichedelico da fine anni ’80 –, oltre al solito Snodgrass, vede poi irrompere con il suo chitarrismo sfrenato il titolare del progetto, mentre la successiva “Do You Know Who We Are” vede i due scambiarsi un bel botta e risposta. Il problema è che quasi tutte le tracce si somigliano tra loro; fattore dovuto sia ad un particolare stile inequivocabilmente (anzi, ostentatamente) statunitense… e alla voce di Rick Ray abbastanza monocorde, che quindi non conferisce alcuna colorazione alle strofe. Gli intermezzi prettamente strumentali sono quindi gli aspetti migliori dell’album, come su “As The Room Went Dark”, dove i controtempi si rifanno a volte addirittura ai King Crimson. Sono comunque brevi attimi di un contesto dove i fiati suonano come specie di clacson nel caos urbano, prima che Ray si lasci andare ad un lungo assolo a cui segue una tanto inaspettata quanto riuscita fase di quiete improvvisa, in cui risuona la chitarra acustica.
Si tratta di un momento che fa da spartiacque tra tutte le tracce precedenti ed “Electroshock”, che col suo scorrere rilassato e psichedelico si discosta felicemente dai soliti ritmi di cui si parlava prima. La voce qui si innesta meglio, entra dopo circa due minuti, per poi lasciare nuovamente la scena alla musica vera e propria che sale di ritmo, con Snodgrass che torna protagonista indiscusso sfruttando il complesso tappeto percussivo. Il momento di ispirazione continua ancora su “Autumn Wind”, la cui introduzione potrebbe alla lontana ricordare quella (ben più articolata, sia chiaro) di “Ho visto anche degli zingari felici” di Claudio Lolli. Per il resto, la composizione è un misto tra la relativamente nuova ballata psichedelica nello stile di Bevis Frond e quella decisamente più vecchia dei Kak. Una canzone che nella parte strumentale, grazie ai soliti Ray e Snodgrass, diventa piacevolmente malinconica. Tutto questo viene spazzato via da “Abandoned Morality”, eccessivamente scarna ma con passaggi complessi. Il sax suona più visionario che mai e ricorda certe soluzioni dei danesi Taylor’s Universe. I ritmi non cambiano certo con la conclusiva “48 Hour Day”, che in qualche modo sembra simulare una specie di corsa. Meglio sicuramente concentrarsi sull’assolo di chitarra conclusivo, senza dubbio convincente.
Anche se lo si sarà capito benissimo, lo si vuol ribadire: Rick Ray entusiasma molto più da un punto di vista strettamente chitarristico rispetto a quello compositivo. I musicisti che lo seguono sono in gamba, all’altezza della situazione e non c’è molto altro da aggiungere. Col prog questa proposta non c’entra granché, a meno che non si voglia tirare in ballo i riferimenti psichedelici. Un po’ forzata come soluzione… Comunque, è più o meno la solita musica che i relativi fan hanno apprezzato in tutti questi anni, quindi loro potranno stare tranquilli. Per la restante parte di ascoltatori, il prodotto potrebbe benissimo interessare gli amanti degli assoli sfrenati e tipicamente vintage.



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Michele Merenda

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