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STRANGEFISH Fortune Telling autoprod. 2006 UK

Salutiamo con favore il secondo album dei mancuniani Strangefish, per una molteplicità di ragioni. Primo, perché ultimamente dal Regno Unito arrivano quasi esclusivamente lavori accreditati a supergruppi o sedicenti tali, spesso con idee scarse e trite confezionate in involucri attraenti e scintillanti, e non è il caso di questa band. Secondo, perché si tratta di un’autoproduzione, e mi chiedo se sia una scelta voluta dal gruppo, dato che non posso credere che le etichette specializzate – incluse alcune ormai considerate major a tutti gli effetti, avrete capito l’allusione – ne abbiano snobbato a cuor leggero il talento e la freschissima vena melodica. Terzo, perché gli Strangefish hanno creato un’intelligente ricetta che su una base new-prog aggiunge ingredienti insoliti per il genere, restando alla larga dalle solite contaminazioni metal o, dal lato opposto, da attitudini retrò troppo spinte, entrambe in voga nell’attuale microcosmo progressivo.
“Fortune Telling”, un concept album concepito senza pause tra i brani, segue a tre anni di distanza l’esordio (“Full Scale” del 2003) salutato con favore e in qualche modo “sponsorizzato” dalla Classic Rock Society inglese, che all’assegnazione degli awards dello stesso anno attribuì alla band riconoscimenti in tutte le categorie.
Ho parlato di new-prog, ma già ascoltando il brano di apertura “Happy as I am” verrebbe voglia di parlare degli Strangefish come degli “Echolyn inglesi”: stessa esuberanza vocale tra l’euforia e l’aggressività, stessa imprevedibilità nello sviluppo del brano… e le similitudini si fanno sorprendenti in “Keep the exit clear”. Piuttosto, ciò che rimanda alla scena degli anni ’80 sono certe progressioni “circolari” di synth, i pastosi assoli di scuola rotheriana, la vitalità ritmica prossima ai momenti migliori degli It Bites e degli IQ del periodo Menel.
Chi ha avuto il piacere di ascoltare l’ultimo lavoro dei connazionali Big Big Train noterà analogie tra i risultati ottenuti dai gruppi: stessi impasti melodici di gran classe che magari potranno non far gridare al miracolo al primo ascolto, ma si propongono in modo tale da stimolarne un secondo, quindi un terzo e così via, proprio in virtù di questa loro non-immediatezza.
Ammirevole anche la capacità di sfuggire all’anacronismo nonostante l’esteso utilizzo di timbriche d’altri tempi (Mini-Moog e Hammond su tutti) da parte di Paul O’Neil, grazie anche ad una produzione cristallina che riesce a valorizzare la sezione ritmica pur in un contesto strumentale lussureggiante e spesso quasi… straripante. Al vocalist Steve Taylor il merito per l’aggiunta di un violino che fa sentire la sua voce in “Reflection, this is me (part.II)”, ricama l’intermezzo classico “360” e sale alla ribalta per l’atipico finale “Lighthouse Jig”, una danza di corte per l’appunto!
Dopo tutti questi elogi passiamo ai punti deboli: sono presenti alcune piccole cadute di tono, in cui la componente pop/AOR rischia di prendere il sopravvento (“Have you seen the light”) ed altri in cui il nostro olfatto smaliziato riconosce un aroma di già sentito; inoltre, la scelta di strutturare il tutto in forma di suite unica può apparire un po’ forzata. Niente di preoccupante, in ogni caso, il giudizio complessivo sull’album non ne risente; mi piace però immaginare che nel prossimo album i nostri si spingano un po’ più avanti nella ricerca di un sound personale: quando si possiedono le loro capacità, limitarsi alla perfezione formale sarebbe quasi un peccato.

 

Mauro Ranchicchio

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