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STARCASTLE Song of times ProgRock Records 2007 USA

Sorpresa: gli Starcastle ci sono ancora. Sorpresa gradita? Analizziamo i fatti.
Per quanto riguarda l’aspetto compositivo eravamo fermi a quella ciofeca di "Real to Reel", datato 1978. Un disco che di prog conteneva quasi nulla e che propendeva per un AOR-Pomp piuttosto modesto. Poi seguirono diversi tour e agli albori del nuovo millennio il gruppo tornò in sala di incisione, ma nel 2004, nel pieno delle incisioni, passa a miglior vita Gary Strater, basso e seconda voce, elemento storico. La sua dipartita ha causato altri rallentamenti (umanamente comprensibili) e la sostituzione non sarà certo stata indolore.
Tutti sanno che il gruppo è passato attraverso la storia del prog come uno dei migliori o quanto meno più noti “cloni” degli Yes e del loro sound degli anni ’70, propendendo però per la vena più melodica quindi, tanto per capirci, non gli intrichi di una “Gates of delirium”, ma piuttosto gli sfarfallii solari delle arie di una “Your’s is no disgrace”. Il suono è rimasto tale e invariato per oltre trent’anni, favorito anche dalle impostazioni vocali dei componenti, che riprendo in maniera molto decisa quelle degli Yes.
Comunque, finalmente, esce questo nuovo lavoro: Song of Times è un bel disco, non esiterei troppo a metterlo tra le cose migliori degli Starcastle, soprattutto perché dimostra una verve compositiva e una freschezza esecutiva ancora molto attive.
Nel lavoro possiamo ascoltare riffs decisi, ritmiche molto dinamiche, anche con una buona dose di tempi dispari, ritornelli e melodie molto riuscite e accattivanti, cori con impasti molto Yes, ma anche molto azzeccati. C’è, innegabilmente, una predisposizione – quasi naturale – per sonorità AOR del periodo yessiano (non certo il periodo migliore) di 90125 - Big Generator.
I dieci brani si attestano tutti su durate tra i 4 e 6 minuti, con una punta di nove minuti per “Babylon”, brano che è anche presente nella sua versione stringata di 4 minuti dalla quale è stata “cesoiata” la parte strumentale centrale, presente nel brano lungo e che rappresenta invece una delle migliori cose del disco. Molto bello per la dinamica e per le scelte ritmiche l’avvio del lavoro con “Red Season”. Spicca anche “Master Machine” buona sotto l’aspetto dell’organizzazione strumentale e delle figure melodiche ben distribuite. Pacata e dai temi rilassati, invece, la title track, uno dei rari momenti riflessivi di un disco scoppiettante, moderno e vintage allo stesso tempo. Molto bella la cover e completo il booklet.
Non stiamo parlando di un capolavoro del prog, ma sicuramente di un buon disco che merita l’ascolto e che rappresenta uno dei migliori rientri in produzione degli ultimi anni, quindi rispondendo al quesito iniziale: sì… una sorpresa gradita.

 

Roberto Vanali

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