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SENOGUL Senogul Mylodon 2007 SPA

Chiudete per un istante i vostri occhi ed immaginate di trovarvi comodamente seduti sui seggiolini di un ottovolante, pronti a partire per un'emozionante corsa fatta di audaci tornanti, ripide salite seguite da improvvise picchiate: non ci sarà il tempo di tirare un sospiro di sollievo durante i momenti di calma apparente perché il prossimo cambio di pendenza vi riconsegnerà impotenti nelle mani dell'accelerazione centrifuga...
E' questa l'immagine che campeggia sulla copertina dell'album d'esordio dei Senogul e non c'è paragone migliore per descrivere la proposta musicale di questo intraprendente gruppo di ragazzi delle Asturie, regione nel Nord della Spagna. La formazione è un quintetto di estrazione musicale alquanto eterogenea (vi fanno parte 2 chitarristi) e tale molteplicità di contributi costituisce l'elemento decisivo alla base dell'imprevedibilità che caratterizza tutto il lavoro. Se ciò non bastasse, nel corso delle 12 tracce interamente strumentali (per un totale di ben 70 minuti) la collaborazione di diversi musicisti locali e un variegato dispiegamento di strumenti di ogni tipo (la sezione ritmica è curatissima e di frequente sono impiegati strumenti caratteristici Asturiani) impreziosiscono un suono già di per sé molto ricco.
Vorrei subito puntualizzare che per essere un album di debutto Senogul è un progetto ambizioso e neanche di facilissima fruizione. Ci troviamo di fronte ad un'opera di stampo fusion secondo il significato più generale di questo termine: ogni brano è stilisticamente e strutturalmente diverso da quello successivo, la contaminazione tra i generi è una scelta compositiva intenzionalmente pianificata tanto da rendere impresa assai ardua qualsiasi tentativo di catalogazione nell'ambito di un circoscritto stile musicale. Forse gli unici due elementi che costituiscono il 'trait d'union' tra i vari brani della scaletta sono 1) la componente folk prettamente iberica che di tanto in tanto fa capolino nel corso dei diversi pezzi, testimoniando l'attaccamento del gruppo alle proprie radici culturali, e 2) gli omaggi, più o meno espliciti, alle grandi bands degli anni '70. Per il resto assistiamo via via ad un'alternanza continua fra momenti di rock progressivo sinfonico, di jazz, blues, funky, musica classica, escursioni nella musica etnica e nella psichedelia che se da un lato ci presentano un'opera varia e mai monocorde, dall'altro esigono una certa predisposizione da parte dell'ascoltatore ad un ascolto 'aperto' ed diversificato che spazzi via i paletti imposti da qualsiasi tipo di specializzazione.

Bene, è il momento di aggrapparsi saldamente alle maniglie del seggiolino perchè il macchinista ci ha appena dato il segnale della partenza.
In verità l'avvio dell'album è piuttosto fuorviante. Il primo brano ("Dr. Gull I", dal nome del medico sospettato di essere Jack lo Squartatore) si apre infatti con una sequenza al pianoforte dal sapore vagamente new-prog. Niente di più sbagliato: dopo una manciata di secondi l'entrata elegante della chitarra solista di Israel Sánchez, che in più di un momento ricorda l'inconfondibile feeling di Jan Akkerman, ci aiuta a sgombrare la nostra mente da questa falsa impressione. Le atmosfere sono in realtà intensamente mediterranee, le sonorità calde e solari evocano paesaggi sterminati e maestosi. La linea melodica principale del pezzo è una delle più importanti dell'intero album perchè sarà ripresa nelle altre 2 tracce omonime (parte II e III), intenzionalmente poste a metà e alla fine della scaletta, quasi a voler costruire un'invisibile struttura portante su cui poggiano tutti gli altri pezzi. Il brano si conclude addirittura con l'intervento di un coro che intona un canto a metà strada tra "L'Isola di Niente" della PFM e "Atom Earth Mother" dei Pink Floyd.
Senza aver avuto il tempo necessario per metabolizzare le nostre prime sensazioni, veniamo improvvisamente catapultati nella traccia successiva ("Racionalidad").
L'attacco di pianoforte assume toni talmente drammatici da comunicare un senso di tensione emotiva che ci accompagnerà per il resto del brano. E' come se la musica si prefiggesse di descrivere la scena di una fuga da una qualche minaccia imminente. L'incalzante accompagnamento di basso, i raffinati ceselli del pianoforte e i suoni poco rassicuranti della chitarra elettrica incrementano l'atmosfera di agitazione convulsa, fino alla progressione finale che sfocia in un confortante epilogo. Ed eccoci arrivati al brano probabilmente più significativo del progetto, la terza traccia intitolata "Tango Mango" (il titolo è un evidente riferimento, sebbene solamente testuale, al celebre capolavoro "Tago Mago" dei Can). Poche righe di commento non sono sufficienti a descrivere pienamente la ricercata eleganza negli arrangiamenti, la complessità dei cambi di ritmo e la bellezza degli intrecci sonori che costituiscono la ricchezza di questo pezzo. La miriade di piccoli frammenti musicali che si susseguono, in modo apparentemente inconciliabile, creano un effetto globalmente omogeneo, privo di sbandamenti e discontinuità, merito anche del grande affiatamento della band: dopo un avvio piuttosto rilassante, la musica si fa improvvisamente grintosa e coinvolgente. L'atmosfera condita di folk tipicamente spagnolo si fonde con momenti che sono più sbilanciati verso un appassionato richiamo alla tradizione prog italica (soprattutto la PFM). Il pezzo raggiunge i suoi apici compositivi in corrispondenza della sequenza centrale, un vero e proprio "tango progressivo" in cui l'ammiccante fisarmonica ci fa tornare alla mente i più celebri motivi di Astor Piazzolla, e nel preciso e gioioso contrappunto della successiva Fuga barocca (vi ricordate la fuga presente in "Trilogy" degli ELP?), questa volta dominata dal suono del clavicembalo, che si incastra con un altrettanto vivace melodia latina. Lasciato alle spalle un così ingombrante paesaggio di suoni, arriviamo quasi per inerzia alla fine del brano, aggirandoci per un sentiero fatto di morbide atmosfere tipicamente spagnoleggianti, alternate con momenti jazzati e più potenti esplosioni sonore, finché il delicato ansimare delle onde marine ci accoglierà nel suo rilassante abbraccio.
La Verbena è una festa popolare tipicamente iberica, che si celebra (generalmente di notte) in occasione dell'onomastico del Santo Patrono di una determinata città. La quarta traccia ("Verbena Hermética") dipinge con secche pennellate proprio una di queste celebrazioni. E' un brano che rappresenta un sentito omaggio alla terra delle Asturie e ai suoi costumi tradizionali e per questo motivo abbonda di elementi folkloristici locali. La dolce melodia introduttiva è infatti intonata da una 'Gaita', la caratteristica cornamusa asturiana, che ci accompagna fino al momento dell'inizio dei festeggiamenti. Subito ci accorgiamo di essere stati invitati ad una festa per nulla noiosa: l'indiavolato arrangiamento delle prime battute, in cui le frustate di basso si sovrappongono ad un'aggressiva chitarra dall'andamento a tratti ipnotico, crea un clima quasi 'orgiastico'. Una particolare nota di merito spetta allo splendido lavoro alle tastiere di Eduardo G. Salueña, assoluto mattatore in più di un'occasione dell'album, che tra un riff alla Emerson in salsa iberica e più ricercati intrecci di sapore jazzistico, lascia un'impronta indelebile in tutto il brano. Affievolitasi la sfuriata iniziale, la musica si adagia su atmosfere folk condite qua e là da frammenti di funky-rock. Come il titolo ironicamente ci suggerisce, la composizione concede anche un breve inserto-omaggio al jazz del polistrumentista brasiliano Hermeto Pascoal, imitando il suo caratteristico stile compositivo fatto di suoni non convenzionali. L'ultima parte del pezzo è invece dominata da un ritmo ternario che sostiene una tipica melodia asturiana eseguita da entrambe le chitarre, disegnando la scena di una spensierata danza locale (una specie di walzer folk). Infine, i versi degli animali e il tintinnio dei campanellini ci riportano ai ridenti paesaggi rurali di quelle zone del Nord della Spagna.
Senza un attimo di tregua, il tortuoso prosieguo dell'ascolto ci conduce alla quinta traccia ("Microcosmos Blues"). Questo brano ha un difetto fondamentale: è concepito come una sorta di lungo e impegnativo 'crescendo' che trascina l'ascoltatore verso altezze impervie fino a sfociare in una brevissima sequenza blues, il finale che avrebbe dovuto costituire nei propositi del gruppo una specie di climax. Il problema è che il preludio è talmente più significativo per durata, intensità e spessore compositivo, da annientare senza mezzi termini la propria conclusione blues, rendendola praticamente un corpo estraneo. Se trascuriamo questo tradimento delle intenzioni originarie, la musica offre comunque molti spunti d'interesse. Vorrei per esempio sottolineare l'intrigante struttura ritmica: assistiamo ad un' alternanza tra tempi in 11/8 e 10/8, seguiti da una più digeribile sequenza in tempo quadrato (lo stesso schema è ripetuto in occasione del ritornello), per finire in un tempo dispari in 7/8 che tanta fortuna ha avuto nel prog. Il brano è dominato da atmosfere piuttosto derivative dalle composizioni dei King Crimson: in alcuni punti del brano il batterista Alex Valero 'Danda' sembra essere cresciuto quotidianamente a 'pane e Bill Bruford', gli accordi dissonanti del pianoforte, quasi 'calpestati', ricalcano quelli del celebre pezzo crimsoniano "Catfood". Non potevano mancare all'appello i consueti stravolgimenti stilistici: un accenno di trance-psichedelica alla Porcupine Tree prima maniera e addirittura una parentesi reggae (anch'essa troppo forzata e avulsa dal contesto: il gruppo ostenta eccessivamente la propria versatilità). Il nostro ottovolante non accenna minimamente a fermare la sua folle corsa ed eccoci lanciati a tutta velocità verso la traccia n.7 ("Gotas De Cristal En Tu Vaso De Luvia"), dopo aver attraversato la breve marcia d'intermezzo di "Dr. Gull II". In questo caso le sonorità ci riportano alla mente le atmosfere sinfoniche dei Focus. Il pezzo è un trionfo di melodia e di appaganti progressioni che sfociano in accordi in modo maggiore. Dopo un avvio ‘liturgico’, in cui un organo da chiesa espone uno dei temi principali, l'attacco incalzante del pianoforte dà il via ad un arrangiamento da sonata di stampo beethoveniano. Il clima è solenne e maestoso, la chitarra elettrica dialoga con il piano raddoppiando una linea melodica struggente, finché l'entrata di un flauto traverso aggiunge un dolce tocco d'intimità. Il brano si conclude con la riproposizione dello stesso tema eseguito dalla band al completo, il suono etereo dell'organo di sottofondo e il malinconico canto della chitarra elettrica creano un sognante impasto sinfonico dominato dall'influenza dei Focus.
Riprendiamo il nostro viaggio incontrando lungo il cammino altri tre pezzi di buon livello: la "Maha Vishnuda", una traccia d'impostazione prevalentemente fusion, il cui sviluppo si basa su un crescendo musicale ove avvertiamo echi di Mahavishnu Orchestra; "Agua, fuego & porexpán", elegante brano di jazz-rock che trasuda di atmosfere tipiche degli anni '70, quasi da telefilm poliziesco, condite qua e là dalle poliritmie caratteristiche dello stile dei Gentle Giant (il piano elettrico intenzionalmente scimmiotta gli accompagnamenti di Kerry Minnear); infine la serena "Travesía de las gaviotas", un pezzo che ci permette di abbandonare finalmente il nostro stato d'animo ad un effimero momento di quiete, lasciandoci cullare da morbide atmosfere di rock latino alla Carlos Santana. Arrivati a questo punto dell'ascolto, non possiamo negare di percepire i primi segnali di una certa stanchezza. La carne al fuoco che abbiamo avuto l'occasione di assaggiare è stata fin qui troppo abbondante, l'eccessiva durata del disco non ci consente di gustare al meglio la sua ultima prelibatezza (a meno di non voler iniziare il nostro assaggio proprio da questa portata), intitolata "La Mulata Eléctrica" (l'ovvio riferimento è a "La Flamenca Eléctrica" degli Iceberg): il brano è intriso di sonorità flamenco-rock che si fondono con frammenti di matrice yessiana (uno in particolare mi fa tornare alla mente "Starship Trooper"). Lo stile del bassista Pablo Canalís ricorda quello di Carles Benavent dei Musica Urbana. La splendida sezione centrale dipinge il fascino misterioso di un paesaggio desertico in cui si stagliano le rovine di una moschea abbandonata: qui le atmosfere gitane si fanno vagamente arabeggianti (la 'mulata' è una commistione di razze e culture). La tappa conclusiva della nostra lunga corsa è il brano "Dr. Gull III", che termina con una maestosa apertura sinfonica impreziosita da sprazzi di musica celtica (la componente celtica è uno degli elementi fondamentali del patrimonio culturale asturiano).

A conclusione di questa lunga recensione: Senogul è un album d'esordio piacevole e seducente, la bravura dei musicisti e la bellezza delle composizioni difficilmente non vi conquisteranno. Vorrei sottolineare anche l'elevata qualità della registrazione, che ci fa apprezzare al meglio il variopinto caleidoscopio sonoro che ci viene proposto. Proseguendo sulla linea della consueta allegoria, questo album è in grado di provocare gli stessi sintomi di una corsa sulle montagne russe: da una parte emozione intensa, adrenalina e coinvolgimento; dall'altra, senso di vertigine e disorientamento. L'anarchia stilistica che lo caratterizza, da qualcuno potrebbe essere vista come un difetto (l'aspetto di unitarietà dell'opera è innegabilmente molto compromesso, l'ascolto dell'intero lavoro dall'inizio alla fine è impresa assai dispendiosa), per altri rappresenterà il cavallo di battaglia del disco (di fronte ad una tale varietà di soluzioni compositive difficilmente la noia prenderà il sopravvento). In definitiva: all'apertura dei cancelli d'uscita, alcuni, colti da un leggero capogiro, decideranno di salire d'ora in poi su giostre un po' più tranquille; altri, elettrizzati da una tale esperienza, andranno di corsa a rifare il biglietto. Chi vi scrive appartiene al secondo gruppo. Consigliato.

 

Fulvio Ferrari

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