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SLYCHOSIS Slychedelia autoprod. 2008 USA

Il progetto Slychosis, frutto della creatività del polistrumentista statunitense Gregg Jones (voce, chitarra, tastiere, basso), giunge al traguardo del secondo parto dopo l’esordio francamente ancora tentennante del 2006 che portava il nome del gruppo.
Nel frattempo registriamo la dipartita del batterista Todd Sears, sostituito in parte dal nuovo acquisto Jeremy Mitchell e in parte dalle percussioni MIDI, nonché l’abbandono del bassista di ruolo James Walker nel corso delle registrazioni di questo stesso “Slychedelia”, cui partecipa nella metà dei brani, sostituito nei restanti dallo stesso Gregg, sempre più spesso nella veste di one-man band; ad integrare la line-up intervengono in alcuni brani il sassofonista Chip Griffith e la vocalist Ceci Smith.
Nel parlare dell’album precedente, ci auspicavamo una minore eterogeneità della proposta, visto che la varietà di stili pareva più figlia di un’incertezza di fondo che di eclettismo, una migliore qualità di registrazione e una maggior cura nel songwriting. E’ con soddisfazione che mi sento di poter affermare che molti passi avanti sono stati fatti in queste direzioni, pur non potendo ancora parlare di un lavoro imprescindibile, soprattutto per la presenza non troppo gradevole della batteria elettronica.
Il campo esplorato è ancora quello di un progressive di matrice space-rock, un ideale punto di incontro tra i Pink Floyd di Ummagumma o Meddle e gli Hawkwind, ma sarebbe un’approssimazione limitarsi a questa definizione. Prendiamo ad esempio il lungo strumentale “Flag of Dimbu”, probabilmente il punto più alto della scrittura del trio del Mississippi: mentre in passato la sperimentazione pareva uno sterile esercizio, qui si fondono alla perfezione le suggestioni cosmiche con il Mike Oldfield di Platinum o QE2, impressione confermata dall’epica “Crimson fields of glory”, vagamente medievaleggiante.
Altro zenith del disco è “Harps of space”, che esordisce esattamente con la promessa del titolo, in chiave classica/new-age, finché una chitarra siderale non sfodera le unghie dimostrando l’indubbio gusto di Gregg in veste di solista. “St. John’s Wood” è invece un omaggio alla città di Londra, con tanto di archi beatlesiani che ci riportano a… storie di “trichechi” datate 1967 ma si rivela infine una vetrina per il sintetizzatore e il piano.
A riprova della superiorità dei brani strumentali, segnaliamo anche “For Vlad”, impreziosita dal piano e del suono del Mellotron e dedicata all’artista Vladimir Moldavsky, autore delle fantasiose e surreali immagini del booklet (a proposito, un altro passo avanti è appunto quello della veste grafica!): figlia naturale dei più stranianti ed onirici episodi disseminati nella discografia solista di Steve Hackett (“Slogans”, “The Air-Conditioned Nightmare”). A far da contraltare a tanta frenesia, non mancano semplici brani melodici come “Cosmic irony” o “Metaphysical Fitness”, apprezzabili ma meno interessanti del resto a causa anche di una voce esitante e un po’ anonima.
In definitiva, l’album è il lavoro di una band in evoluzione, peccato che gli avvicendamenti abbiano causato l’introduzione delle innaturali percussioni sintetiche, cosa che fa perdere qualche punto al gradimento, un gradino superiore alla media ma con ampie possibilità di miglioramento.

 

Mauro Ranchicchio

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