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SCIARADA The addiction Lizard 2009 ITA

A volte sembra che la musica abbia una direzione, che provenga esattamente da un punto specifico e che debba arrivare ad un altro con egual precisione. Nello specifico questo pare giungere da lontano, da terre solitarie dalle ampie distese sabbiose e quasi aride. Questi suoni, giungono da lontano, arrivano come antiche onde, che nel tragitto rimbalzano su rocce incise di arte antica, sfrondano i rami degli alberi, lambiscono le acque dei laghi, dei fiumi e dei mari, caricandosi di simboli, di linfa, di gocciole tenue e di salino e di umori diversi. Il lontano, questo specifico lontano, è la memoria, è il ricordo che non si attenua, sono i tentacoli dei ricordi che furiosamente o con estrema cautela, aprono i cassetti nei quali avevamo riposto le nostre ansie, le nostre paure, le nostre gioie e tutto quanto sappiamo tirare fuori all’occorrenza, semplicemente con il gesto del ricordo: dai suoni della prima infanzia, alle turbe dell’adolescenza, alle sicurezze e insicurezza della vita più matura. Sono un arpeggio di chitarra o una nenia di pianoforte, in grado di far riaffiorare un viso, un profumo, un ricordo, un attimo, congelati in un’istantanea del passato. Elettronica, classica, soundscapes, minimalismi, postrock, ambient ciclico e reiterato in maniera eniana, sperimentazione, industrial, sommessi e lunghi respiri del mondo Labradford e vago noise, tentano di saturare in maniera geometrica le celle esagonali di un alveare, dal quale percola nero e avviluppante sciroppo sonoro. Lo stesso che ha abilmente inchiostrato la cover dell’album, tracciando, e tentando di completare ciò che non è completabile. Il bianco e nero, che inevitabilmente lascia dei vuoti, spesso delle voragini nell’anima. Nei brani leggiamo silenzi e intemperanze, architetture ora concave, ora convesse dove i suoni scivolano e non riescono a trovare agganci. In questa sfuggevole struttura si muovono tracce come “Lazaruz Contex” o la lunga “Baratio”. In altre dimensioni, distribuite su più livelli, desolanti a tratti, più ricchi in altri, l’opener “Devon Ptu” o “n.v.” arricchita dai vocalizzi di un’ottima Antonella Bertini.
Il trio veronese Michele Nicoli, Matteo Sorio e Marco Tuppo, sembra aver trovato una collocazione che, pur non distante dalle trame dell’EP di esordio del 2007, porta un grande salto in serietà e professionalità. Il disco è indirizzato soprattutto agli amanti della ricerca interiore, dei viaggi sonori solitari, ma credo possa risultare decisamente interessante per chiunque.


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Roberto Vanali

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