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SEISMIC CRY Fleeting Open Sea 2011 CAN

Dietro la sigla Seismic Cry, si cela il progetto del polistrumentista canadese Philippe Gaudet, cantante, chitarrista, tastierista nonché unico autore della musica contenuta in questo terzo album, che segue “The Hopeless Flare”, risalente al 2004 e “Reverence”, pubblicato nel 2007.
Questa incarnazione del progetto vede il leader affiancato nel reparto vocale da Tony Sharkey, dalle percussioni (reali e virtuali) di Mathieu Poirier e Mathieu Catafard e dai fiati di Anne-Sophie Mongeau.
Non conosco i due lavori precedenti, ma nella nota di presentazione si definisce questa nuova fatica come qualcosa di meno etereo e dal maggior significato personale per l’autore; alla prova dell’ascolto non è certo l’allegria che si sprigiona da questi undici brani, piuttosto è un filo di malinconia (e un pizzico di monotonia) a legare il tutto, costruzioni melodiche molto semplici, che spesso si affidano alla ripetizione o alla ricercatezza dei suoni, sfociando spesso e volentieri in territori post-rock (“Far from me”). Gli accenti floydiani sono solo un retrogusto, pur presente, ma si commetterebbe un errore cercando le radici dei Seismic Cry negli anni ’70: le voci filtrate, i V-drums, il ruolo della chitarra, persino le sequenze di accordi, tutto rimanda ad esperienze di rock alternativo degli ultimi due decenni: ad esempio, gli accenti psichedelici di “Polaris”, sono molto più imparentati con certi esperimenti di Radiohead o Mogwai che a quelli di Syd Barrett, nonostante le vocals strampalate. Gli episodi d’atmosfera sono affidati a tappeti di tastiere e violoncelli (“Floating”) e trasmettono serenità, ma credo sia più opportuno segnalare “So short goodbyes”, un brano acustico caratterizzato da linee vocali emotivamente sussurrate, e che - malgrado l’armonizzazione tra le due voci soliste non appaia perfetta - si rende interessante per l’uso di archi e legni (sintetizzati) nel finale; nonostante l’esordio, con quella batteria elettronica cimelio degli anni ’80 che non promette niente di buono, pollice alzato anche per l’atipica “Carnival”, con una melodia che pare una “nursery rhyme” e quella chitarra (e-bow?) così aliena in un contesto quasi pop. Peccato che i fiati, che avrebbero apportato la varietà timbrica che viene spesso a latitare, siano così sottoutilizzati, il sax fa timidamente capolino solo su “Atonement” e il flauto arricchisce “More of you” per poi dileguarsi. Il brano finale “Happy endings” si distingue per la lunga durata (oltre 10 minuti) e di conseguenza per lo sviluppo più articolato, sempre basato su energie accumulate che sfogano in crescendo di scuola post-rock.
Questo “Fleeting” non è un lavoro destinato ad accendere facili entusiasmi, così a cavallo tra i generi e sinceramente infarcito di imperfezioni (le voci monocordi, il songwriting un po’ anemico); eppure mentirei se evitassi di menzionare un suo fascino quasi nascosto, sprigionato proprio dalla difficoltà ad inquadrare l’opera e che spinge a ripetere l’ascolto. In definitiva, malgrado la band citi Gabriel, Oldfield e Philip Glass come influenze, consiglio maggiormente l’ascolto a chi ha apprezzato l’intelligente semplicità melodica di album come “Dust Lane” e “Skyline”, ovvero la produzione più recente del compositore francese Yann Tiersen


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Mauro Ranchicchio

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