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SYNDONE Eros & Thanatos Fading Records 2016 ITA

La vita (nel bene e nel mare) è fatta di incontri apparentemente casuali. Un fenomeno che non riguarda solo il contatto diretto con le persone ma anche quello indiretto, come ad esempio può capitare con un testo scritto che forse ci stava cercando. Sembra essere capitato proprio questo a Riccardo Ruggeri, cantante dei torinesi Syndone, con l’immortale Cantico dei Cantici. Giunti al sesto album, i musicisti piemontesi creano ancora una volta un concept col preciso intento di sviluppare in tutte le sue parti il patrimonio della vecchia tradizione prog, sia italiana che internazionale. Stavolta ci si è cimentati nello scritto ufficialmente attribuito a re Salomone e annesso alla Bibbia addirittura circa un secolo dopo la nascita di Cristo, con il sinodo rabbinico di Iadne. Diviso in otto capitoli in cui la parola “Dio” non viene mai menzionata, si tratta di un insieme di racconti in realtà opera di (per lo meno) uno scrittore anonimo del IV sec. a.C., il quale si sarebbe rifatto a dei racconti ancora più antichi dell’area mesopotamica. Proprio in questo contesto, la band del tastierista Nick Comoglio (unico componente originario della formazione) ha voluto elaborare la storia in cui si fa riferimento ad Eros e Thanatos, cioè Amore e Morte intesi nel loro senso e nella loro forza primordiale.
Nati come terzetto, passati a quintetto e poi di nuovo in trio, oggi i Syndone sono formati da sei elementi rodati durante gli ultimi tour, anche se poi alcuni compaiono solo in determinati pezzi e sembrerebbero ancora una volta dei turnisti impiegati all’uopo. I diretti interessati smentiscono categoricamente e quindi, in definitiva, non si può che prenderne atto: oggi la band di Torino è ufficialmente un sestetto legato a detta loro da un grande feeling. Una nuova dimensione che ha portato ancora una volta a mutare l’approccio compositivo e a realizzare un prodotto ulteriormente diverso rispetto al passato. Comoglio cura ancora di più le orchestrazioni e in molti punti si sente un risultato che deve molto alla musica cameristica, grazie ai violini e violoncelli coinvolti per l’occasione. Quando ci si lascia andare allo “sfogo” degli strumenti l’impatto è sempre positivo, nonostante la scelta atavica di non voler far uso della chitarra elettrica (compaiono però inserimenti di chitarra classica ed acustica, rispettivamente ad opera di Pino Russo e Tony De Gruttola) ma adottando un suono d’insieme molto potente, soprattutto grazie alle tastiere che suonano distorte al momento giusto. Di certo c’è un modo di porgersi molto intellettuale e – diciamolo pure – nemmeno tanto velatamente retorico, cosa che spesso fa inserire il genere in compartimenti elitari e quindi attirare tante antipatie. C’è da ascoltare per bene e con calma, perché la proposta dei Syndone, col passare degli anni, diventa sempre più complessa e cerebrale. Anche se poi sembrano esserci dei chiari riferimenti agli Area del periodo “Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano” (1978) in “Qinah”, cantata con trasporto in ebraico, e nella strumentale “Area 51”. Allontanandosi da questi canoni, c’è poi “Farha”, cantata in arabo, ancora uno degli episodi migliori.
Altro bel momento è “Terra che brucia”, ma ci sono da citare anche “L’urlo nelle ossa”, dove ricompare dopo una vecchia collaborazione Ray Thomas, flautista dei Moody Blues, e soprattutto “Sotto un cielo di fuoco”, primo pezzo in assoluto in cui i Syndone inseriscono una chitarra elettrica. Comoglio, nel suo immaginario, aveva sempre visto in Steve Hackett l’unico che ipoteticamente avrebbe potuto suonare tale strumento per i brani del gruppo; ebbene, nell’episodio finale dell’album, i lunghi assoli vengono eseguiti proprio dal chitarrista storico dei Genesis. Sì, il connubio sembra perfettamente riuscito e ci sarebbe da augurarsi che questo possa essere il preludio per soluzioni analoghe da sfruttare in futuro.
I Syndone sono sempre stati un fenomeno particolare: c’è chi li deride (credeteci, perché è vero) non si sa bene per che cosa e chi li osanna anche al di là dei propri meriti. La verità è che Comoglio, Ruggeri e compagnia bella ci sanno fare, suonano bene e magari ci mettono quella cieca passione che non fa guardare loro oltre determinati confini – comunque ampi –, facendoli apparire un tantino “fissati”. Beh, hanno comunque costruito (nonché delineato) i propri personaggi e nonostante i mutamenti continui sono riusciti a creare un bel marchio di fabbrica. Quest’ultimo lavoro va ascoltato, perché c’è musica bella da assimilare con calma e dei riferimenti letterari colti che guardano alla passione amorosa con grande positività e gioia. Tutto questo è un bel sentire. Chi trova avversione per qualsiasi degli elementi sopra descritti, può ovviamente declinare l’ascolto.



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Michele Merenda

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