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STELLA LEE JONES Escape from reality Dizziness Records 2016 JAP

Dopo due album pubblicati con I Flat122, il chitarrista Satoshi Hirata, che impiega il suo tempo suonando anche con gli Electric Asturias, decide di separarsi dal tastierista Takao Kawasaki e formare una nuova band tutta sua (il nome è preso da un brano del secondo album dei Flat122). Il primo album (“A floating Place”) a nome Stella Lee Jones viene pubblicato nel 2011 e, 5 anni dopo, esce questo nuovo lavoro, interamente strumentale come il precedente, che vede l’avvicendarsi di alcuni musicisti rispetto all’esordio.
Balza subito alle orecchie la differenza stilistica tra le due formazioni; i Flat122 presentavano un suono più jazzato e pastorale mentre l’avvio di questo disco ci ricorda d’acchito i funambolismi di KBB (band ben conosciuta da Hirata, visto che il bassista Akinobu Mukaedani produsse il primo album dei Flat122) e PTF, con ritmiche brillanti e mozzafiato ed il violino di Hitomi Iriyama (ottima musicista dal curriculum che spazia dalla classica al jazz) in primo piano. I primi tre brani dell’album procedono quindi così, in uno stile emozionante e sopra le righe, un po’ a metà strada tra, appunto, i KBB ed i Déjà Vu di Sakuraba (il cui percussionista Genta Kudoh peraltro partecipò all’album precedente), sinfonico e bombastico, con influenze fusion o funky non troppo evidenziate.
Un primo momento di pausa ce lo prendiamo con la breve “Waking up Maybe…”, delicato brano per soli archi e piano. Si prosegue su atmosfere morbide e delicate con la successiva “Smash the Wall”, brano che comunque vede sempre il violino come protagonista, pur affiancato da un nervoso e tecnico assolo di chitarra e dall’accordion di Emi Sasaki; si tratta di un pezzo molto bello, comunque.
L’accordion si fa maggiormente sentire nelle ancor più tenui sonorità di “Swimming in a Shallow Sleep”. Ormai il disco sembra aver preso una piega più tranquilla rispetto all’inizio e procedere quindi in delicatezza e anche la lunga successiva “Yume no Kyoukai-sen”, divisa in 3 movimenti, si dipana sinuosamente, con vaghi accenni RIO e cameristici.
“Tokyo Fantasista” giunge a risvegliarci dal torpore, tornando su cadenze sostenute un po’ più simili a quelle dell’avvio, con percussioni e ritmiche che vagamente accennano alla musica brasiliana, ma pur sempre in un ambito sinfonico e sempre, ovviamente, col violino a fungere da strumento protagonista, appena contrappuntato dalle tastiere.
“Mirror” ricorda vagamente qualcosa di Oldfield, con violino, chitarra e accordion che creano melodie liquide e ricorrenti, con un finale più in ambito fusion. L’album termina con “The Winter Song”, un brano lungo ma abbastanza anonimo che, anche grazie all’accordion, potrebbe anche essere la colonna sonora di un film francese, con delicate note di piano che fanno anche tanto Montecarlo Nights.
A conti fatti quest’album sembra il prodotto di una band guidata da un violinista, più che da un chitarrista; ad ogni modo si tratta di un bel disco di Prog eclettico e ben raffinato, con musicisti che possono vantare ottima tecnica.



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Alberto Nucci

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