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SPACE TRAFFIC Numbness autoprod. 2018 ITA

Esordio ufficiale per il trio di Aosta, che comincia a suonare assieme durante il 2015 dopo alcune esperienze già maturate nel settore da ciascun componente. Fabio Baldassari (chitarra), Marco Gugliotta (batteria) e Marco Pica (basso, voce) ispirano il proprio moniker al curioso avvenimento occorso agli astronauti che nel 1969 si trovavano a bordo dell’Apollo 10; mentre attraversavano l’orbita sul lato oscuro della Luna, registrarono l’interruzione improvvisa delle comunicazioni, seguita da una strana musica. La NASA spiegò che si trattava di un fenomeno causato dal traffico di oggetti spaziali entrati in contatto col campo magnetico del satellite stesso. Fatto sta che i nostri hanno giocato molto su questo stato intermedio tra la realtà e l’irrealtà, insistendo molto sulle sensazioni stranianti. Il concept che sta alla base di questo debutto ne è una prova, in cui si parla di un individuo sprofondato in quel torpore che non permette di vivere pienamente la propria esistenza. Un risveglio che può passare solo dal superamento di momenti difficoltosi e dalla riflessione che analizza vecchi ricordi.
Sì, ma la musica? Non male, anche se per buona parte non è da intendere come prog-rock. Non è certo un peccato mortale, ma se in queste pagine virtuali ci si concentra su un determinato genere – per quanto dai confini ampi e non certo netti –, certe situazioni occorre comunque puntualizzarle. L’iniziale title-track appare molto convincente, soprattutto nella prima parte, in cui sembra di sentire gli Arabs in Aspic di “Pictures in a dream” (2013), con una prova vocale di Pica assolutamente convincente; subito dopo, però, i riferimenti vanno ai Green Day più maturi, anche se poi ci sono delle fasi strumentali psichedeliche con cui si torna vagamente alla band norvegese, per concludere tramite accenni post-grunge. Pezzo senza dubbio orecchiabile e dalle energie positive, che meriterebbe di girare per radio. Dopo “U say U love me”, traccia da festa di collegiali anglosassoni ribelli (e torniamo ai Green Day, ma quelli un po’ più giovani), “Time machine” si sviluppa come probabilmente il pezzo più tendente al prog. Una macchina del tempo che si trova più che altro nella nostra mente e che ci impedisce di stare nel presente, troppo indaffarata a vivere il passato e a creare ansie per il futuro, scandita da riff più hardeggianti e soliti ritornelli melodici, che allo stesso tempo vorrebbero però essere “monelli”; ma la parte strumentale vede un eccellente lavoro sulle sei corde che ricorda a tratti Keith Cross dei T2, con cui si intreccia la complessa parte ritmica.
Il basso è in effetti messo sempre in bella evidenza, anche nei momenti più “mielosi”, come ad esempio in “Powder & pride”, a cui segue la più convincente “Hails of love”. Questa è una composizione dove una certa ispirazione che a tratti guarda addirittura a Lucio Battisti si mischia ai R.E.M., seguita da intermezzi di chitarra stentorea ben seguiti dalla batteria, con cui si tenta di andare oltre il semplice accompagnamento. “Mirror Game” segna l’abbandono della vecchia identità interiore, con cori, arpeggi e parti poi molto più ritmate, mentre “Blue moon” va man mano connotandosi di una certa “apocalitticità”; peccato per l’assolo di chitarra, che viene interrotto troppo presto per tornare alle atmosfere pressanti e incombenti.
La fase però è cambiata. “Tear it down” suona più notturna e non ci si lascia andare più a ritornelli “piacioni”, in favore di qualcosa più vicino al blues, con picchi in cui ci si lascia finalmente andare. “Fire from the depth” tira in ballo i Blur, concludendo poi con gli undici minuti di “The dream (live @TDEstudio)”. Traccia in cui gli strumenti suonano psichedelici e ben definiti, soprattutto il già citato basso. La parte cantata appare più matura – forse il protagonista della storia, che vuole essere finalmente vivo, procede di pari passo – e le partiture strumentali sono più vicine a quelle dei Nebula. Interessante il finale.
In conclusione, questo album andrebbe suonato a tutto volume in un bel bar, dove si vuole respirare divertimento ma senza sbracarsi con musica immonda. I tre ragazzi ci sanno fare e si spera possano presto incidere qualcosa di più maturo ed elaborato.



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Michele Merenda

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