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TRANSBOHÊM Deserts autoprod. 2012 FRA

Cinque musicisti francesi, buona parte di essi polistrumentisti, che hanno girato diversi Paesi per entrare in contatto con altre realtà musico-sociali e quindi accrescere ulteriormente il proprio bagaglio culturale. Una copertina evocativa di viaggi presso luoghi in cui si perdono e si rigenerano i pensieri, ricordando incredibilmente quella di “Qaartartut” dei groenlandesi Inneruulat (grande, nello specifico, l’accostamento cammelli-deserto e ghiacci perenni), quasi a ribadire l’universalità del viaggio come ricerca ineluttabile dell’artista. Formatisi nel 2004 e chiamati in un primo momento Tzigan Therapy anche per la presenza all’inizio di un violinista che esaltava ulteriormente le loro influenze est-europee, il nome è mutato in Transbohêm Orchestra e poi accorciato definitivamente nell’attuale Transbohêm, per abbracciare ulteriormente la commistione con la musica “zingara” in particolare e la contaminazione della musica nelle sue varie culture in generale (“sbohem”, in lingua ceca, significa “arrivederci”).
Tralasciando tutti i passaggi ed i cambi di formazione che hanno portato all’incisione di alcuni demo, questo esordio ufficiale è stato realizzato praticamente live in studio, dando vita ad un genere eterogeneo che la band tende a presentare come un incrocio tra metal, fusion e world music. Effettivamente, all’interno dell’album sono presenti tutte e tre le componenti citate, approdando così ad un lavoro assai eterogeneo. Le fonti di ispirazione dichiarate dal gruppo stesso sono gli Opeth, i Dream Theater, i Symphony X (e quindi la musica classica di autori come Mussorgsky e Berlioz), ma anche i Deep Forest, i King Crimson di “Red”, i Magama, gli Zao ed i Dead Can Dance. Ed a proposito di quest’ultimo riferimento, la voce spesso lirica di Claire Lafage fa senza dubbio la differenza in una realtà come quella dei Transbohêm; violinista fin da piccola, colei che è attualmente una cantante si è avvicinata agli studi classici (anche per quanto riguarda la voce) e poi operato in contesti che sono andati dal melodic metal degli Evil One ad ensamble vocali come l’Opéra Lyre di Beatrice Malleret dell’Opéra National de Paris.
I cinque brani proposti, per quanto siano solo una piccola parte di ciò che realmente è stato composto in questi anni, secondo la band rappresentano al meglio il loro stile, che si basa sulla ricerca della diversità. Ma non appena parte l’iniziale “Caravan” (nome anche del loro ultimo demo), non si può non pensare di star ascoltando qualche versione particolare di “Master Builder” dei Gong! L’uso della voce ricorda molto quella di Danishta Rivero sul primo album dei venezuelani-statunitensi Aghora ed anche le sonorità dei riff si rifanno molto ad una sorta metal-fusion che comunque deve parecchio ai Cynic privati delle growling-vocals. Lungo i dieci minuti del brano non c’e spazio per ritornelli o fasi identiche a sé stesse, bensì un fluire continuo di atmosfere che poi portano l’ipotetica carovana verso sentieri differenti da quelli di Steve Hillage e Dave Allen, tra intermezzi quasi acustici e gli assoli continui del chitarrista Yves Corvez che per aprirsi la strada si servono delle tastiere “dense” di Jean-Marc Gobac.
“Circles”, con un’apertura in stile Symphony X più duri (ma vengono in mente anche i Therion più classicheggianti), vuol essere ancora una volta un’allegoria legata ai viaggi nel Sahara, con un intermezzo legato ai raga indiani che per alcuni attimi vorrebbe trascendere i limiti corporei. La seguente “Ecoute Petit Serbe” è un inno alla pace, ispirato dagli scritti di Wilhelm Reich e dedicato alla guerra nei Balcani, in cui la Lafage, a sua volta ispirata dal canto di un bambino serbo, mostra il lato più delicato della musica dei francesi, facendo poi posto ad una transizione armonica assai elaborata soprattutto nel finale.
“Hun’s Parade”, il cui titolo allude alle invasioni barbariche durante il primo Medioevo, somiglia un po’ agli ungheresi Korai Öröm, con un intermezzo che per dichiarazione dei componenti stessi è stato composto in chiave ironica, ma che presenta comunque un altissimo tasso di difficoltà esecutiva. Si chiude con “Flam”, abbreviazione di “Flamencito”, che dovrebbe riflettere proprio le attenzioni verso i ritmi del flamenco e delle sue derivazioni, ma anche verso compagini come i già citati Magma e King Crimson.
Precisando che il bassista Christian Bocande ha suonato dal vivo anche con un personaggio del calibro di Joe Zawinul e che il batterista Emmanuel Blattes ha cominciato come clarinettista, dandosi poi agli studi pianistici con Elie Maalouf e suonando l’attuale strumento sull’album del combo jazz-rock Ecarts, capiamo la complessità di quanto proposto e la necessità da parte dell’ascoltatore di non concedere ai Transbohêm solo un ascolto frettoloso.
Forse quanto proposto in “Deserts” non estrinseca totalmente i contenuti sviluppati in questi anni di ricerca compositiva; infatti è lecito attendersi presto un nuovo lavoro, che sviluppi definitivamente quanto di buono è stato mostrato in questo esordio discografico.


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Michele Merenda

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