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MARTIN TURNER AND FRIENDS The Garden Party: a celebration of Wishbone Ash music - the private recording Dirty Dog Discs 2014 UK

Doppio live a cui occorre fare una doverosa premessa storica, parlando di un rinomato gruppo britannico: i Wishbone Ash. Un nome storico che per l’intreccio delle due chitarre in fase solista influenzò persino il metodo compositivo di Steve Harris, bassista fondatore degli Iron Maiden, band emblema del heavy metal a livello mondiale, che si caratterizzò fin dagli esordi proprio per i duelli tra le due “asce” e che soprattutto nei primi album si rifece molto ai propri connazionali nell’uso degli arpeggi. Ironicamente, il fondatore del primo nucleo dei Wishbone era stato colui che poi ne diventò il bassista, Martin Turner, che nel 1963 diede vita ai Torinoes, suonando la chitarra assieme al fratello Glenn. Da lì, vari avvicendamenti di formazione e tanti cambi di nome, con l’entrata in formazione di musicisti di maggiore esperienza e addentrati anche nel mondo del jazz come il batterista Steve Upton. Dopo la delusione del 1969, in cui il nome era diventato Tanglewood e si era tentato il salto professionale in terra londinese, Glenn decise di abbandonare il gruppo. Subito dopo la defezione si cercò un tastierista, ma al suo posto arrivarono ben due chitarristi, entrambi solisti: David “Ted” Turner ed Andy Powell. A quel punto, al buon Martin non restò che passare al basso, visto che il posto era per di più vacante. Ed ecco che il particolare amalgama iniziò a prendere forma, portando a cambiare definitivamente il moniker in quello tutt’oggi conosciuto e ad aprire i concerti di realtà già acclamate come i Caravan, Aynsley Dunbar e T-Rex. Fino a quando i ragazzi aprirono un concerto per i Deep Purple ed un certo Richie Blackmore ne rimase talmente colpito da segnalarli a chi di dovere. Il contratto che avrebbe portato all’esordio omonimo del ’70 fu il naturale passo successivo, mettendo in risalto un energico ensemble che univa hard-rock, blues ed elementi riconducibili al folclore dal sapore irlandese. Perché la critica li abbia voluti inserire a forza anche nel prog è un mistero, che forse può essere parzialmente spiegato ascoltando le soluzioni del secondo “Pilgrimage” uscito l’anno seguente, quasi interamente strumentale. Ma i grandi onori sarebbero arrivati con “Argus” (1972), un concept in cui molti vi hanno visto una trasfigurazione dell’invasione del Vietnam, dove il songwriting non denota le cadute di tensione dei suoi due predecessori, grazie anche a delle esecuzioni effettuate in stato di grazia. Fino ad oggi sono stati sfornati oltre venti album, con avvicendamenti di formazione a partire dal quinto lavoro (ci passò di sfuggita persino John Wetton) e vari cambiamenti di stili, dal southern all’AOR, passando persino per la techno-dance!
Oggi, parlando dei componenti originari, a guidare le nuove uscite discografiche dei Wishbone Ash rimane solo Andy Powell, mentre Martin Turner si esibisce spesso dal vivo riproponendo i vecchi fasti che furono, chiamando a sé anche qualche vecchio compagno di avventura. Proprio come accaduto per questo doppio concerto, un’incisione privata di un set che include brani rari e classiche performance magari non eseguite usualmente dal vivo. Come specificato dallo stesso Martin Turner, la sua band personale ha sempre lasciato una porta aperta alle collaborazioni con i vecchi compagni di line-up; due anni fa, quindi, si decise di creare questo personale omaggio al proprio passato davanti ad una ristretta audience di fedelissimi appassionati. Per l’occasione è intervenuto in alcuni pezzi del secondo dischetto il chitarrista Ted Turner, a cui si è poi aggiunto quel Laurie Wisefield che avrebbe preso il suo posto a partire da “There’s the rub” (1975). Era stato invitato anche lo storico batterista Steve Upton, il quale, nonostante fosse entusiasta per la rimpatriata (compare nelle foto del libretto), ha comunque declinato l’offerta di suonare a causa della lunga inattività. Per quanto riguarda i contenuti musicali, si può dire che i musicisti suonano come più che onesti professionisti, ma per lunghi tratti non esaltano più di tanto. Non viene dato molto spazio al periodo dei primi tre-quattro album, quindi la fanno molto più da padrone le composizioni che strizzavano l’occhio al nascente rock commerciale, tendenzialmente di natura statunitense. I primi sei pezzi sono nettamente in contrasto con il terzetto che chiude la prima parte, vale a dire un’ottima, ritmicamente “progressiva” e chitarristica “The Pilgrim” proprio da “Pilgrimage”, “Way of the World” da quel “No smoke without fire” (1978) che sembrava voler costituire la ripresa di un certo sound e la vivacemente southern “No Easy Road” di “Wishbone four” (1973), qui superiore all’originale.
Da questo punto di vista, un po’ tutte le esecuzioni traggono beneficio dall’atmosfera live, pur non raggiungendo chissà quale intensità. E questo dovrebbe far riflettere molto attentamente sulla bassa qualità in cui finirono per molto tempo invischiati i Wishbone. Nel secondo cd partecipano i vecchi amici sopra menzionati e la vivacità aumenta di qualche grado. Da citare “In the Skin”, estrapolata da “Nouveau calls”, pubblicazione strumentale del 1987 che sancì per un breve periodo il ritorno della formazione originale. La produzione “plasticosa” era un autentico flagello, mentre qui, per fortuna, non ne rimane traccia. Così come per la rara “Lookinf proof” che apriva “Just testing” (1980).
Una seconda parte – per forza di cose – in cui vi sono molti più assoli, la cui testimonianza finale è apportata da “Jailbat”, ancora da “Pilgrimage” (c’è anche “Valediction”, seguita da “The King Will Come” da “Argus”), che alza il livello verso la sufficienza. C’è comunque da dire che questo doppio live non è nulla di particolare, se non una felice rimpatriata tra amici che amano e sanno suonare. Se siete dei collezionisti, questo doppio farà la sua elegante figura (anche se non si sa quante volte lo ascolterete…). Altrimenti, fermatevi pure ai primi tre lavori e a qualche vecchio live. Avrete già messo dentro della buona musica e non rischierete di comprarne di brutta, ridimensionando drasticamente un nome di per sé (fino ad un certo momento) glorioso.



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Michele Merenda

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