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THEO TRAVIS’ DOUBLE TALK Transgression Esoteric Antenna 2015 UK

Sono passati otto anni dall’ultima uscita solista di Theo Travis. Certo, il sassofonista, clarinettista e flautista britannico in tutto questo tempo non è certo rimasto con le mani in mano. Oltre ad essere un componente dei Tangent, infatti, il musicista nativo di Birmingham ha sostituito il defunto Elton Dean nei Soft Machine Legacy (eredi degli storici Soft Machine); ha suonato assiduamente con Steven Wilson, sia sulle sue pubblicazioni in studio che dal vivo (in passato è comparso anche sugli album dei Porcupine Tree); ha collaborato con Robert Fripp, pubblicando quattro lavori in duo; ha fatto poi registrare diverse collaborazioni illustri, persino con i rinnovati Jade Warrior…
Alla luce dei fatti e delle esperienze vissute, il nono album solista di Travis mostra un’incisività decisamente maggiore rispetto al precedente “Double talk”, da cui viene oggi mutuato il nome della band. Rispetto al 2007 è arrivato il batterista Nic France, che assieme al (qui confermato) chitarrista Mike Outram e a Travis stesso era presente su “Grace for drowning” (2011) proprio di Wilson. Riconfermato anche il tastierista Pete Whittaker, più che altro concentrato su un uso particolare dell’organo Hammond. Detto che il cinquantunenne musicista titolare del progetto preso in esame ha ormai tante esperienze alle spalle e che è persino entrato a far parte dei Gong suonando fiati, tastiere e partecipando attivamente alla composizione dei brani (oltre a collaborare sia con David che con Richard Sinclair, tanto per rimanere dalle parti di Canterbury), si può ben capire quanto sia diventato ampio il suo background musicale. Il diretto interessato ha parlato di instrumental, bluesy, progressive jazz album, con cui voler mostrare le proprie influenze legate agli anni ’60 e ’70. È fuori discussione che, come già accennato, la musica qui sia decisamente meno rarefatta e ben più corposa rispetto al passato, partendo magari dalla strada tracciata con “And so it seemed” e “Portobello 67”, cioè gli ultimi due brani che concludevano la precedente pubblicazione. Lo stesso Steven Wilson ha mixato e masterizzato l’album, realizzando invero un ottimo lavoro, che è stato concepito suonando il più possibile in presa diretta e con molta intensità. L’apertura dettata da “Fire Mountain” non può non essere un tributo all’influenza dei King Crimson di cui (guarda caso) Robert Fripp è sovrano assoluto, ricordando gli attacchi inziali di album (rimasti purtroppo unici) di ottime band come Avant Garden e Trioscapes. Però qui c’è meno spigolosità, meno caos rabbioso. Il sax di Travis denota invece una forte raffinatezza, anche sensuale, a cui fa seguito l’ottimo assolo di Outram, che si conferma un musicista capace di adattarsi alle più svariate esigenze. In questo caso si produce in una svisata spesso asimmetrica, dall’ottimo groove. Segue la title-track di ben dodici minuti, che sembrerebbe partire in maniera ordinaria, magari anche con una melodia orecchiabile di facile fruizione, per poi lasciare subito il passo alle sei corde del solito Mike Outram, che continua a svisare alla grande, stavolta evocando anche partiture esotiche. Risuona qualcosa di già sentito nell’aria, soprattutto durante la fase più intensa dell’esecuzione; forse si tratta del ritorno al magico periodo in cui Allan Holdsworth incendiava le platee con i Soft Machine a metà degli anni ’70, quando cioè – come sostiene proprio Travis – i confini tra jazz, rock e musica sperimentale erano molto più fluidi rispetto ad oggi.
A questo punto l’album cambia man mano la propria conformazione. “Smokin’ at Klooks” è un tributo alle serate fumose passate al Klooks Kleek, famigerato club situato nella parte nord-ovest di Londra in cui si esibivano nomi destinati alla Storia come John Mayall, Eric Clapton, Peter Green, Keith Richards o persino Jimi Hendrix. Su una base irregolare di sedici battute, invece delle consuete dodici, Outram reincarna il sound di sensuale contemplazione del sopracitato Peter Green, magari in coppia con Mayall o da solo mentre componeva “Black Magic Woman”, pezzo che avrebbe fatto la fortuna di un certo Carlos Santana. Dopo tutto ciò, “Son for Samuel” è una composizione decisamente jazzata e solare, dove il multiforme Outlet va dietro all’effervescente sax di Travis con un assolo tipico dei chitarristi jazz vecchio stampo, il cui andamento complessivo viene ben interpretato dalla batteria di France. Si torna alla “fumosità” da ambiente britannico con “Everything I Feared,” composta con Dave Sturt (entrato nella recente formazione dei Gong), dove le sei corde risuonano nitide e potenziate dai fiati che hanno un’eco capace di far tornare alla mente anche delle voci, oltre al sotterraneo organo di Whittaker che conferisce ulteriore corposità. L’unica cover presente, “Maryan” di Robert Wyatt e Philip Catherine, continua lungo il sentiero dell’incantata morbidezza sonora, per poi ripartire con “A Place In The Queue”. Vale a dire la versione strumentale della title-track del terzo album dei Tangent, scritta a suo tempo col tastierista Andy Tillison.
Difatti, qui c’è da rimarcare la maggiore presenza di Whittaker, oltre all’ottimo assolo di Travis sul suo inseparabile sassofono, a cui segue quello del solito Outram, oramai perfettamente abituato a saltare da un umore musicale all’altro in maniera repentina.
Si chiude con la breve “The Call”, in cui il malinconico sax suona un “blues-jazzato” nella nebbia, ormai con gli occhi asciutti perché le lacrime sembrano finite per sempre. Si conclude così un album che grazie ai primi due brani sembrava destinato ad essere un bellissimo lavoro di prog con spiccati elementi jazz in primo piano. Poi, invece, pur mantenendo di sovente la connotazione “progressiva”, i contenuti sono gradualmente mutati, necessitando di essere assaporati con maggior pazienza e sotto un’altra ottica. Travis, nel suo complesso, sembra non essere riuscito a sfuggire a se stesso, ritornando in buona parte sui suoi passi. Bene così, alla fine. Perché si tratta comunque di un bel lavoro, che riesce a non rinnegare il passato. Evolvendosi quindi con una certa coerenza, che va indubbiamente riconosciuta.



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Michele Merenda

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