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TICKET TO THE MOON Æ sense of life autoprod. 2016 SVI

Gruppo proveniente da Basilea, fondato nel 2003 dal batterista Daniel Gostelli e dal chitarrista Andrea Portapia (entrambi dalle evidenti origini italiane), nel corso dei primi anni ha registrato vari cambi di formazione fino all’assestamento finale del 2007, col tastierista Matthias Zwick ed il bassista Guillaume Garbonneau. Un melange che ha messo insieme (come si evince ancora una volta dai nomi) un po’ tutte le principali componenti nazionali presenti in Svizzera e che col suo prog-metal mischiato a soluzioni space nonché di atmosfera giunge al secondo album. Una specie di concept esistenziale, basato molto sui rimpianti che andrebbero evitati per non dire mai il fatidico “avrei voluto ma poi non l’ho fatto”, in cui peraltro è possibile ravvisare il condizionamento che spesso giunge dall’esterno tramite le drastiche scelte altrui. Più di una volta, infatti, sembra che fino ad un determinato punto della vita non sia stata raccontata la verità… E poi, di colpo, nella nostra esistenza si è fatto improvvisamente tardi. Proprio per questo, all’interno della confezione si esprime quanto in genere si pensi troppo ed invece si senta troppo poco, inteso nel senso di vivere e provare sentimenti, emozioni.
Nelle strutture musicali viene a volte ripreso il riff del vecchio techno-metal, sempre però stemperato con tempestività dalle atmosfere improvvisamente rarefatte e spaziali come le immagini di copertina. Probabilmente le parti melodiche sono le migliori, da rintracciare in “Perpetual pt. 1” e “Perpetual pt. 2”. La prima è divisa peraltro in più sezioni, tra basso e pianoforte che contribuiscono a “scurire” maggiormente le trame, mentre la seconda parte si distingue per il lungo assolo di chitarra che, nonostante sia decisamente accademico con i suoi rimandi neo-classici, fa comunque il suo effetto. Le voci sono spesso divise tra i vari componenti e tutto l’effetto d’insieme, per certi versi, ricorda a tratti i Dream Theater dell’epoca con Charlie Dominici, ai tempi cioè del primo “When day and dream unite” (1989). Non vi sono comunque le peripezie strumentali già tipiche di Petrucci e Portnoy, bensì le sopra accennate escursioni atmosferiche. Ma anche la conclusiva “Hynkel”, dopo una prima parte di effetti e voci, si distingue per una seconda sezione in cui le parti vocali incalzanti e sempre più dittatoriali vanno di pari passo con un crescente supporto melodico fatto di sinfonismi e note di pianoforte ripetute, poste sullo sfondo lontano.
La ritmica, come testimoniano già le prime battute di “The Call Within”, sembra essere la parte vincente, mentre le voci potrebbero essere quella più debole, anche se conferiscono quel senso di “astrazione” a cui probabilmente i nostri ambiscono. Gli stacchi continui e le lunghe fasi di calma inquietante sembrano ribadire la volontà di approfondire e strutturare la storia o le storie, come nelle due parti di “Patient 730100”, sfruttando anche altri linguaggi che non siano per forza l’inglese. “Foetus”, dal canto suo, per quanto interessante e a tratti intensa, nei suoi dieci minuti forse risulta fin troppo lunga.
Concludendo: per il genere trattato, il risultato complessivo è sufficiente. Nulla di eccezionale, ma comunque sufficiente. Ci sarà modo di migliorare ulteriormente, se davvero lo si vorrà. Da segnalare la confezione, composta al 100% da carta riciclata.



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Michele Merenda

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