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TRAUMHAUS In oculis meis Progressive Promotion Records 2020 GER

Giunge a quattro anni dall’apprezzato “Ausgeliefert” il quarto album… e mezzo (se consideriamo un EP) per i Traumhaus, band fondata nel 1994 a Limburg, in Germania come “Zweeback” che arriva però all’esordio discografico solo nel 2001 con il nuovo nome. In questo lasso di tempo, la band capitanata dal tastierista e cantante Alexander Weyland vede i suoi ranghi completamente rinnovati con l’ingresso di nuovi elementi ad occuparsi di chitarre, basso e batteria. Chi avuto il piacere di ascoltare gli album precedenti, ricorderà una commistione tra sonorità aggressive, soundscape un po’ oscuri e un certo retaggio new-prog anni ‘80/’90: possiamo anticipare che quest’ultima tendenza è andata progressivamente scemando fino quasi a scomparire (forse a meno di voler scomodare gli ultimi Arena), mentre le caratteristiche che inquadrano nettamente la proposta in un filone moderno e prevalentemente europeo-continentale sono qui confermate e rafforzate. L’album è proposto in un’accattivante confezione digipack contenente due CD con le versioni in lingua inglese e tedesca dello stesso lavoro, interessante decisione e forse un passo verso la promozione internazionale, considerando che in passato la band ha sempre prediletto l’espressione nella lingua madre.
L’apertura è affidata alla breve “The Awakening”, con le caratteristiche appunto di un’introduzione pomposa e sinfonica, che presto lascia il posto a “Preserve & understand” e il suo ostinato riff metal con tastiere atmosferiche in stile Rudess (buona la scelta delle corpose timbriche per le incursioni lead), un contraltare che può ricordare anche i tardi Porcupine Tree (in senso temporale…) e un refrain ben congegnato a liberare la tensione;mentre Ray Gattner picchia duro sulla batteria, i synth e le chitarre si sfidano a colpi di assoli. Spiazza ma non troppo “Walk on yourself” col suo incipit misterioso, in cui Alexander si conferma vocalist con una certa personalità; ben presto arriva la prevista (temuta?) accelerazione e un altro riff pseudo-metal, stemperato in un altro refrain melodico e cantabile. Anche qui ottima la scelta delle timbriche delle tastiere, che finiscono per essere la “voce” portante del brano: d’altronde Weyland è l’autore di tutti i brani e ciò non stupisce. L’assolo in coda del chitarrista Tobias Hamplin ristabilisce l’equlibrio, con la sezione ritmica impegnata a non essere da meno. Si tratta – forse - del mio brano preferito dell’album, certamente uno dei più riusciti. “Escape” è episodio granitico sulle stesse coordinate, ma un po’ più anonimo… l’album, giunti a metà, risente un po’ dell’eccessiva uniformità delle atmosfere e il livello di coinvolgimento rischia di vacillare. Continuando con l’ascolto e sperando in qualche sorpresa per ravvivare la curiosità, incontriamo “So many ways”, che si apre con chitarre hard-rock e sequenze di percussioni, con la voce di Weyland un po’ sotto le righe, fino a che l’ennesima apertura “corale” riconduce il tutto alla formula collaudata, pur con un po’ di elettronica come ingrediente aggiuntivo. Vaghissime influenze del glorioso krautrock anni ’70 le troviamo in “The new morning”: ritmiche spezzate, organo melmoso, basso incalzante, cantato gagliardo su melodie vocali un po’ più grezze, ma il suono levigato della chitarra elettrica presto ci riporta ai giorni nostri con un assolo breve ma apprezzabile;si tratta in ogni caso del brano “vintage” del lotto, anche se le dichiarate influenze di band sinfoniche come Anyone's Daughter, Novalis e Grobschnitt continuiamo a non coglierle appieno.“Understand & preserve”, come il titolo lascia intuire, è legato al brano già ascoltato, di cui costituisce una prosecuzione puramente strumentale: una chitarra cupissima, forse debitrice di Tony Iommi, introduce il tema ormai noto: riproporlo lascia però l’impressione di un certo inaridimento delle idee, in un album per di più ragionevolmente breve.“X-ray the darkness” chiude il disco ancora in odore di prog-metal un po’ ruffiano, con Weyland che tenta addirittura delle incursioni in un falsetto gabrielliano; aperture atmosferiche e sezioni un po’ caotiche portano il brano ad approcciare i nove minuti, svolgendo forse faticosamente ma infine con successo la funzione di climax emotivo e strumentale dell’opera.
Pur auspicando certe correzioni di tiro nella scrittura dei brani ed augurandomi una maggiore eterogeneità di questi, nel complesso tenderei a giudicare questo “In oculis meis” un punto di arrivo per la band piuttosto che un’opera di transizione, in quanto l’utilizzo di canoni compositivi ben definiti ne rende le sonorità ben distinguibili dalla massa, anche se con ciò non intendo che si tratti di un disco fondamentale.
Per quanto riguarda le due versioni, ho iniziato l’ascolto con il CD in lingua tedesca, immaginandolo quello concepito in origine, ma pur ammirando generalmente le band che scelgono di esprimersi nel proprio idioma, ho apprezzato maggiormente la versione inglese (di cui ho utilizzato i titoli per semplicità), forse per via di un certo addolcimento di versi un po’ assertivi grazie al quale si evita un certo “effetto Rammstein” in combinazione con le sezioni heavy (chiedo perdono ai seguaci del gruppo industrial berlinese…).



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Mauro Ranchicchio

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