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UNITOPIA More than a dream Unicorn Digital 2007 AUS

Me lo sono meritato! Ebbene sì, dopo tanto blaterare lamentando la scarsa fantasia delle odierne band di stampo sinfonico ecco che mi capita tra le mani un album di cui si può dire esattamente il contrario. Dovrei essere felice? Cosa c’è che non va? Andiamo per ordine.
Unitopia è il nome scelto da un’esordiente band australiana di cui l’insolitamente scarno booklet dice poco o niente; aggiungiamo quindi che la formazione è centrata attorno alle figure di Mark Trueack (voce e compositore dei brani) e del chitarrista Sean Timms e completata da altri cinque strumentisti tra cui spiccano i fiati del polistrumentista Mike Stewart.
Come accennavo, ho avuto un po’ di difficoltà ad inquadrare la proposta, essendo troppo eterogenea per poter essere descritta in modo esaustivo; sicuramente le tessere progressive compongono la maggioranza di questo bizzarro mosaico, ma ce ne sono altre estranee al genere e delle più svariate: influenze etniche, il pop intelligente di Alan Parsons Project, di Mike and the Mechanics, di Chris Rea e Al Stewart, inflessioni funky (grazie alla bassista Shireen Khemlani) più una buona dose di Peter Gabriel e Sting solisti.
Ciò che non mi convince è il modo in cui sono mescolate o meglio sono lasciate distinte queste diverse anime musicali spesso stridenti tra loro, come l’introduzione orchestrale di “Take Good Care” che lascia spazio ad uno scontatissimo brano pop pseudo-etnico dai pur sinceri intenti ecologisti. Il lato prog dell’album è rappresentato da uno scialbo rock di stampo Pendragon/It Bites che solo occasionalmente si presenta godibile e comunque sempre contaminato da una tendenza pop evidentemente ritenuta irresistibile dalla band. Ad esempio, l’opener “Common Goal” esordisce come una curiosa versione fiatistica degli IQ ma viene irrimediabilmente rovinata dalle evoluzioni rap del vocalist; il pop solare di “Fate” giustappone un sax soprano ad un ritornello che sa un po’ troppo di anni ’80, mentre “Justify” contiene un buon piano elettrico e intrecci vocali alla Echolyn ma si perde nell’inusitata durata di ben dodici minuti. Meglio la title-track che almeno ha una struttura coerente ed una melodia accattivante.
L’album continua su queste coordinate per ben 70 minuti, tra alti e bassi, e personalmente giungo al termine dell’ascolto senza che mi permanga in testa un’impressione ben definita; concludo quindi lodando gli Unitopia per il coraggio di alcune scelte ma con il timore che questa terra di nessuno che potrei chiamare “prog-lite” non abbia le attrattive per incoraggiare molto l‘ascolto, a meno di focalizzarsi meglio in una delle (troppe) direzioni qui tentate.

 

Mauro Ranchicchio

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