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UNIVERS ZERO Clivages Cuneiform 2010 BEL

Da sempre, l’arte prende forma e sposta l’attenzione del fruitore, in maniera del tutto casuale. Il gesto che precedentemente poteva essere letto come arte, additato e messo sul piedistallo a mo’ di esempio, in un periodo successivo può passare del tutto inosservato. Chi fa musica (o arte in genere) per un lungo periodo ha quindi bisogno di mutare il proprio indirizzo e seguire in maniera, non solo metaforica, il bisogno, la richiesta, del pubblico, unendo il proprio stimolo creativo a questa spinta esterna. Qui arriva la coerenza, qui arriva il proprio ego che cozza in un mercato sempre più stretto e sempre meno attento a quello che realmente è arte e realmente fa cultura.
In tutto questo, ovviamente, si muovono anche gli Univers Zero, band che ha fatto della coerenza della propria proposta un credo inossidabile, ma non per questo ha mai tradito quello che è una indispensabile evoluzione creatrice di stampo bergsoniano, dove l’anima e la mente sono supporto della fisicità, del corpo e non possono prescindere da tale condizione.
Quest’ultima opera si stacca dal precedente lavoro, che comunque risale al 2004 e pone l’ascoltatore di fronte ad una serie di tracce molto definite e funzionali. Aleggia sempre quel senso sotterraneo e sinistro che è caratteristica fondamentale dell’espressione musicale di Denis e soci, ma appaiono anche trame più luminose, tessiture che mirano ad una ascoltabilità più sollevata. La musica consente di visualizzare la lunga sequenza di istantanee, poste a ruotare come in un evento unico, che nasce dal consolidamento di forme astratte e diviene conoscenza reale, palpabile, assolutamente fisica nell’ascoltatore. Questo meccanismo è attivato naturalmente grazie alla splendida unione stilistica a cui gli Univers Zero ci hanno abituati: tra classica contemporanea, avanguardistica, folk, cameristica e progressive. Anomalo l’avvio con “Les Kobolds”, quasi arioso con un tema strappato alle gighe nordiche e stravolto in un’anomala poliritmicità dall’aria cameristica. Ci pensa però la composita drammaticità di “Warrior” a gettarci nel mondo infernale più tipico e furibondo della band, con strabilianti incroci di fagotto-violino-chitarra che gestiscono inconsuete melodie, sempre sull’orlo seghettato dello sperimentalismo. La successione dei brani cede proprio a questa alternanza, tra spazi più chiari e spazi fortemente introspettivi. Esempio deciso è la composizione “Soubresaults”, brano molto tecnico che fa del citato dualismo un vero stendardo, con clarinetto e fagotto a ripartire i due stati d’animo contrapposti in fughe e rincorse, scambi di posto e relazione, sotto la stretta dettatura governata dalla prolificità ritmica imposta dalla scrittura di Denis. Impossibile non citare il mirabile lavoro al clarinetto nella dinamica “Three Days”, o la devastante solennità della conclusiva 'Les Cercles d'Horus', ma quello che l’essenza del disco, la matrice sonora, è “Straight Edge” che in una serie di crescendo esemplari è la dimostrazione stessa della potenza musicale degli Univers Zero, tra atmosfere inquiete e minacciose, particolari intrichi sonori e ritmici, involuzioni con discese profondissime fino al piano minimale, sempre con una ricchezza di particolari e sensazioni decisamente rare. Nel lavoro non c’è nulla di “qualsiasi”, nulla di “generico”. C’è l’atto spirituale e fisico all’unisono. C’è l’unificazione del pensiero con il gesto, come estensione del meccanismo produttivo e in antitesi all’immobilismo, in direzione dell’evoluzione citata inizialmente. In una parola c’è il NUOVO.
È un azzardo parlare di disco dell’anno ad anno appena iniziato, ma questa è una di quelle uscite memorabili, vediamo che accadrà.



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Roberto Vanali

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