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UNIVERS ZERO Phosphorescent dreams Arcangelo 2014 BEL

Il numero di catalogo di questo nuovo album mi è saltato subito all’occhio, 1313, lo stesso del lontano esordio del 1977, chissà se è stato il destino a bussare alla porta del gruppo oppure, più semplicemente, si tratta di una trovata di Daniel Denis. Se questo numero sarà l’epigrafe che segna la fine di un lungo ciclo oppure il sigillo di un nuovo inizio sarà il tempo a dircelo, la cosa certa è che la musica è cambiata, e lo si percepisce già al primo ascolto. Leggendo le parole di Denis buttate giù sul sito degli Univers Zero ho subito realizzato che tutto era premeditato. Giunto alle soglie del decimo traguardo discografico in studio, l’ormai navigato batterista, si sentiva arrivato ad un vicolo cieco e di qui l’esigenza di distruggere la sua creatura per poi farla rinascere a nuova vita artistica, alla ricerca di una ritrovata freschezza. I giovani Nicolas Dechêne, chitarrista con esperienza di insegnante accademico con le mani in pasta un po’ in ogni ambito musicale (lo ricordiamo ad esempio nella folk band Turlu Tursu e al fianco di Pierre Vervloesem nell’album “Rude”) e Antoine Guenet, tastierista di SH.TG.N. e Wrong Object, sembrano apparsi sulla strada di Denis proprio al momento giusto, divenendo complici perfetti per un pesante restiling che, fra le altre cose, ha portato in soffitta alcuni strumenti d’orchestra cruciali per quel sound inconfondibile che conoscevamo come il fagotto, l’oboe o il violino. Anche se i due non entrano nel processo compositivo, che è stretto nelle mani del vecchio fondatore e di Kurt Budé, i quali si alternano ordinatamente nella stesura degli spartiti, i loro strumenti diventano essenziali in un contesto sonoro in cui la chitarra si integra perfettamente e che allo stesso tempo appare meno fragoroso e più posato.
Della band di “Clivages”, che a sentire Denis era divenuta sterile ed improduttiva, non sopravvive, oltre ai già citati artisti, che il fedele bassista Dimitri Evers, non certo un asso nella manica ma meticoloso nel seguire le indicazioni dei due compositori che preparano la strada per il gruppo con rigore e precisione maniacale. Come al solito ogni nota è ponderata al millimetro e non c’è spazio per alcuna distrazione, tutto deve funzionare come un dannato e bilanciato meccanismo di precisione, tanto che, nella vita del gruppo, i momenti in cui si è fatto ricorso all’improvvisazione sono delle memorabili eccezioni. Alcuni dei nuovi brani (l’album si compone di un totale di sette tracce) sono stati realizzati appositamente perché facessero da commento ad alcuni film sperimentali degli anni ’20 e ’30, commissionati nel 2013 dalla Cineteca Nacional de Mexico ed il gruppo li ha suonati dal vivo nell’Aprile dello stesso anno mentre le immagini scorrevano sullo sfondo. Questo scenario surreale si adatta perfettamente alla musica che ha perso molta della sua carica horrorifica e minacciosa per divenire più paesaggistica, silenziosa e controllata seppure attraversata da decise nervature elettriche fornite da una chitarra che dialoga incessantemente con gli altri strumenti dominando gli intrecci strumentali. La musica preserva la sua dimensione orchestrale e la mano dei compositori è riconoscibile come un vecchio marchio di fabbrica ma in un certo senso è come scarnificata, svuotata di tanti dei vecchi contenuti e lasciata sola con le sue ossessioni. Lo percepiamo già dalla traccia di apertura, “Shaking Hats”, ove vige un ferreo autocontrollo e le emozioni sembrano contenute a forza. La timbrica della batteria suona qui un po’ artificiale e le suggestioni orchestrali le fornisce per lo più Kurt Budé con la selezione dei suoi fiati che curiosamente comprende clarinetto e clarinetto basso, sax alto e tenore. Il pianoforte invece gioca nelle retrovie, instancabile, con il suo bel tocco cameristico ma ineluttabilmente sullo sfondo. La chitarra, dicevamo, ha un ruolo attivo e si relaziona costantemente coi fiati in questa sorta di chamber music dai suoni scheletrici in cui mancano in realtà i colori ed il calore dell’orchestra.
I paesaggi sonori non atterriscono ma paiono fatti di pallida cenere e macerie, appena illuminati dalla fioca luce lunare. Il senso di vuoto si fa tangibile in quei brevi momenti in cui il piano viene lasciato solo. Proprio il piano in solitaria apre “Vocation”, un brano caratterizzato dal susseguirsi di tante piccole ossessioni sonore. Ecco il tintinnare metallico di quello che sembra un triangolo che si ripresenta più volte e anche quando scompare persiste nel pensiero come un tarlo, il piano che sembra passeggiare nervosamente avanti e indietro e la chitarra che intesse ragnatele senza fine. La centrale “Rêve mécanique” sembra persino avere sonorità più rassicuranti, anche se le ripetizioni cicliche dei vari intrecci musicali, che si susseguono in flussi più o meno regolari, con ondate successive e treni di loop, hanno un che di morboso. Si inseriscono in questo pezzo anche la tromba, suonata dall’ospite Hugues Tahon ed il trombone di Adrien Lambinet, e persino questi strumenti appaiono a tratti docili e garbati mentre in altre occasioni le atmosfere tornano improvvisamente minacciose. Tromba e trombone tornano in “L’espoir perdu”, altra gemma firmata da Budé, e questa volta ci regalano atmosfere quasi inedite in quello che sembra essere una specie di requiem, un brano funereo dal feeling classicheggiante, pervaso da un clima desolante di attesa e rassegnazione. Quando entra il tamburo, sembra quasi che stia richiamando a sé le anime di soldati falciate sui campi di battaglia. I suoni sono stranamente puliti e vengono preferiti registri cupi. La title track è collocata in chiusura e anche qui vengono dipinti scenari desolanti. Il ticchettio sui piatti dà quasi la sensazione di infastidita impazienza, esaltata dal movimento lento della musica. Il piano risuona nel vuoto, poche note plumbee, pesate, che anticipano l’entrata degli altri strumenti che si trascinano pesantemente.
Questo album, innervato da uno scheletro elettrificato, grazie al ricco lavoro di chitarra, dalle sonorità parzialmente rinnovate, privo di slanci improvvisi e di esplosioni, così temperato, dominato da trame spesso spezzettate in cui gli strumenti si intersecano senza andare all’unisono, brilla per un superbo lavoro di scrittura, e non poteva non essere così, vista la caratura dei compositori, che se anche fossero mossi dalla solo forza di inerzia, riuscirebbero a tirare fuori musica di ottima qualità. Ciò che non riesco ad afferrare appieno è l’anima di questo album che ha un volto velato, forse ancora in attesa di qualcosa. Daniel Denis non esclude che le due giovani new entry possano essere coinvolte in futuro nel processo compositivo, allora sì, credo che gli Univers Zero imboccheranno definitivamente una strada che sembra qui appena iniziata. Per il momento, anche se magari non vedo quella scintilla che dona carica vitale alla musica, non si può che riconoscere ancora una volta il valore di questa band. I fan saranno comunque soddisfatti, ed è un bene, visto che questa edizione giapponese ci costringe ad allentare il portafogli più del dovuto.


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Jessica Attene

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