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ÜMIT! The spirit of Ümit Bellerophon Records 2015 GER

Preceduto da tre mini-album cantati e votati allo heavy-rock, il primo full-length del trio di Düsseldorf è totalmente strumentale, attua una rivoluzione di stile e si catapulta in una psichedelia ispirata inequivocabilmente dai Pink Floyd dell’epoca pre-“The dark side of the moon” (1973). La dichiarazione di intenti risulta chiara fin dai dieci minuti iniziali di quella che – guarda caso – viene intitolata “Ummagumma” (1969), composizione omonima dell’album sperimentale per eccellenza della (fortunata) creatura di Roger Waters. Anche l’apertura del brano stesso è un chiaro tributo a quel lavoro tanto particolare, con i suoni della natura e soprattutto il canto degli uccelli mischiato ai loop dei sequencer. Un’atmosfera che si espande, dando poi libero spazio alla chitarra di Jean d’Auberlaque, protagonista assoluto dell’intero lavoro, debitore senza alcun dubbio dello stile di David Gilmour. Stile impresso soprattutto su un altro album visionario come “Meddle” (1971), ma anche nella colonna sonora “Obscured by clouds” (composta nel 1972 per il film “La Vallée” di Barbet Schroeder). Timbrica quindi astratta e densa allo stesso tempo, che riempie l’aria e aiuta l’ascoltatore a creare visioni mentre fissa all’orizzonte le dense nubi d’autunno, grazie anche all’incedere costantemente preciso di Von Irme (basso) e Peter Sherman (batteria).
Sono le componenti che verranno ritrovate in tutte e cinque le lunghe composizioni, compresa la seguente “Tesla” (come il famoso ed originale scienziato), resa un po’ banale da degli intermezzi ritmici dal vago sapore andino e che mostra il meglio di sé quando, intorno al sesto minuto, si lascia libertà d’espressione alle sei corde. Ritmo andino che con i suoni sintetizzati di un flauto di Pan scandisce gli otto minuti di “Cobra verde” (sembra quasi la vecchia pubblicità di una nota marca di caffè!), pezzo che fin dal titolo risulta essere un chiaro tributo all’arte tedesca contemporanea: era così intitolato, infatti, il film di Werner Herzog datato 1987, ispirato al romanzo “Il viceré di Ouidah” del britannico Bruce Chatwin, con le musiche – guarda ancora una volta la casualità – dei Popol Vuh. Chitarra resa molto più “tagliente”, tra sintetizzatori e ancora canti di uccelli, per una durata resa forse troppo lunga dalla ripetitività del tema, acquisendo però forza e varietà nel finale.
Un forte legame con la propria nazione lo si registra anche con “Tiefensee”, nome di una frazione della città brandeburghese di Werneuchen, soppressa come Comune nel 2003, nonché cognome di diverse personalità importanti in territorio germanico. Un incedere lento, molto meditativo, che riporta ancora di più al succitato “Obscured…”. Quasi otto minuti in cui le corde vengono toccate con feeling anche grezzo, ricorrendo ad artifizi evocativi tipo note più acute che vengono inserite come dei sapienti incisi. Chiusura con gli oltre nove minuti di “Mark of Cain” (il “marchio di Caino”, elemento riportato nell’intramontabile “Demien” di Herman Hesse), ancora molto calma, che dopo cinque minuti fa sentire la sua quieta elettricità ricordando alla lontana le vecchie cose dei connazionali Tangerine Dream, aggiungendoci però la chitarra elettrica.
A parte riferire che i titoli dei brani sono scritti talmente piccoli da far perdere la vista a chi li volesse leggere, si sa molto poco di questi Ümit, tedeschi con monicker turco. Sembra che il nome del chitarrista e leader sia uno pseudonimo, dietro al quale si cela Jochen Oberlack, peraltro manager della casa discografica in testa riportata. Il nome della band, invece, dovrebbe essere riferito ad una sorta di fratello immaginario di Ahmet Ertegun (tra i fondatori e capo dell’Atlantic Records), eliminando il cognome e lasciando il nome proprio.
Ascoltato in prima battuta, l’album appare gradevole. Riascoltato, soprattutto ad alto volume, mette in luce delle belle soluzioni, che si spera vengano ulteriormente sviluppate nelle prossime uscite, eliminando alcuni passaggi banali.


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Michele Merenda

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