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VIOLENT SILENCE Twilight furies Open Mind Records 2020 SVE

Dei Violent Silence avevo apprezzato il debutto, l’omonimo album uscito nel 2003, un disco non troppo originale ma caratterizzato da sonorità di matrice nordica che in generale sono state sempre amate dagli appassionati. Un loro tratto distintivo era quello di non avere chitarristi fra i piedi ma di puntare tutto sulle tastiere. Su “A Broken Truce”, il precedente lavoro risalente al 2013, ce ne erano addirittura tre! In tutto la produzione di questa band può contare ad ora soltanto su 4 album (includendo quest’ultimo) caratterizzati dal progressivo indurimento ed impoverimento del loro sound. Anche se rimangono due tastieristi (Johan Hedman, che si occupa anche delle percussioni, e Hannes Ljunghall) nella formazione a quattro (completata da un nuovo bassista, Simon M. Svensson, e da un nuovo cantante, Erik Frosberg), in gran parte i synth fanno ciò che ci saremmo aspettati mediamente da una coppia di chitarre impegnate per lo più a costruire muraglie sonore a suon di riff. Il registro tastieristico preferito somiglia molto al suono delle campane tubulari e questo timbro ce lo ritroviamo praticamente dall’inizio alla fine dell’album e viene utilizzato per creare un accompagnamento frastagliato ma piuttosto monotono. La batteria è pestata con molta energia e la voce è rabbiosa e degna di una thrash band, il che potrebbe essere sufficiente a proiettare i nostri eroi nel regno del prog metal, anche se curiosamente le chitarre che sarebbero regine in questo contesto, non ci sono. Troviamo due brani piuttosto lunghi, “Tectonic Plates” di circa 16 minuti e “Scorched Earth Pass”di circa 13, ma si tratta di pezzi piuttosto monolitici e abbastanza stancanti. Le canzoni non sono proprio tutte uguali, ad esempio c’è una breve “Dance of Shuriken” che è una ballad rarefatta per chitarra arpeggiata (che è una tastiera) e synth, piuttosto monotona, lenta e oscura, che non ha neanche quella funzione rigenerante che dovrebbe avere un intermezzo in un album impegnativo. Poi c’è una fugace “Beyond The Pass” cantata a cappella ma credo sotto l’influsso dell’alcool e la conclusiva “Perilous Border”, un episodio per sole tastiere dai riflessi elettronici. Poi c’è una centrale “Lunar Sunrise” in cui le maglie sonore a sorpresa si allentano ed emergono assoli tastieristici sinfonici che ci riportano un po’ agli sfarzi del passato con i riferimenti ai connazionali Twin Age che tanto ci saltavano in mente quando ascoltavamo le cose più vecchie. Anche il cantato si fa meno rabbioso ed emergono delle linee melodiche. Quel registro un po’ a campane tubolari però rimane imperterrito, anche se per le parti solistiche viene per fortuna preferito qualcosa di più simile al Moog. A questo punto credo di aver detto abbastanza da scoraggiare l’approccio del prog fan medio a questo album. Insomma, siete avvertiti: la violenza non manca, di silenzio ce ne vorrebbe forse un po’ di più.



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Jessica Attene

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