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WILLIAM GRAY Living fossils autoprod./UMI 2006 ARG

Dietro il misterioso appellativo di William Gray si cela il progetto ambizioso del chitarrista e compositore argentino Sebastián Medina che con l’aiuto di validissimi strumentisti invitati, del paroliere Guillermo Rubens e del fumettista Marco Baldi ha dato vita al concept di “Living Fossils”. Una storia notturna, il cui protagonista Virgilio, abitante porteño predestinato, si trova a vestire suo malgrado i panni dell’eroe vagando per le strade della città, mischiandosi ai personaggi emarginati e riconoscendo in loro i depositari dell’identità perduta di una metropoli che ha cancellato i confini tra lucidità e follia (che siano loro i “fossili viventi” del titolo?)
Un’ opera la cui struttura è da intendersi come un puzzle di indizi, di cui questo disco rappresenta solo una tessera, con le altre due da ricercarsi nelle proiezioni dello spettacolo audiovisivo e nei contenuti grafici di un sito web multimediale, almeno nelle intenzioni dell’autore. Il sito in questione è ancora in fase di allestimento, mentre la rappresentazione scenica ha visto la prima svolgersi in un teatro di Buenos Aires nel settembre del 2006 con il gruppo ora composto di dieci elementi stabili.
Musicalmente si può parlare certamente di rock sinfonico; nonostante la presenza di un coro polifonico non siamo di fronte ad una vera opera rock, né l’impiego di un sestetto d’archi deve suggerire un approccio cameristico o pedissequamente classicheggiante: il progressive dei William Gray è di raffinatissima fattura ma risulta assimilabile ed è sostenuto da una buona dose di energia; in fin dei conti il nocciolo della band è una classica formazione pentagonale, addirittura con la doppia chitarra e con l’Hammond di Juan Manuel Tavella spesso protagonista.
A rammentarci la provenienza australe dei cinque, gli arrangiamenti prevedono anche l’utilizzo della fisarmonica e del suo stretto parente argentino, il bandoneón (reso celebre all’estero da Ástor Piazzolla e precedentemente utilizzato in ambito prog dagli Alas), nonché di percussioni autoctone come il bombo legüero (“Urban battle II”). Il cantato è però in lingua inglese, ma Medina se la cava bene col suo timbro particolare e un po’ oscuro da vocalist new-wave.
Proprio per la sua natura, l’album prevede un ascolto unitario ed alterna brani di durata maggiore a intermezzi acustici affidati a turno al piano, alla chitarra classica, all’organo o al coro. Tra i primi merita sicuramente una segnalazione la pomposa “Darkest side”, che apre l’album in tono maggiore grazie ad una chitarra lirica (tra Oldfield e Gilmour) ed un Hammond dal timbro pieno (spesso sembra di ascoltare un organo a canne!); sulla stessa linea la rocciosa “Urban battle I”: se non fosse per gli interventi degli archi si potrebbero notare analogie con il sound dei migliori Ayreon, senza però mai tentare soluzioni prog-metal modaiole.
Un’altra menzione per la più riflessiva “Fading points” che si fa apprezzare per la sua atmosfera sognante, a dire il vero infarcita di luoghi comuni come le brevi note staccate di Mellotron ed il coro femminile nei frangenti più ricchi di pathos, marchio di fabbrica degli ultimi Pink Floyd. Qui come altrove, liquidi assoli di chitarra cedono la scena un po’ a sorpresa alle note gravi di violoncello e contrabbasso e sono queste soluzioni che elevano la proposta due spanne sopra l’album medio di new-prog. Quando poi vengono messi da parte gli strumenti elettrici, i risultati sono ancora ottimi, come in “Broken minstel” in cui piano e chitarra classica si alternano agli archi dando forma a delicati acquarelli classicheggianti e crescendo semiacustici o nella ballata “Dragonfly” per cui si può per una volta parlare di “rock da camera”. Da brividi gli interventi di fisarmonica su “Eye in the hole” e quantomeno inusuale il tango (sì, proprio tango!) che chiude l’album a mo’ di bonus track.
Al termine dell’ascolto mi sento di poter affermare che quest’album non solo è in grado di competere con i nomi più blasonati del progressive contemporaneo, europeo e statunitense, ma che in molti casi dimostra una profondità maggiore sia dal punto di vista delle composizioni che degli arrangiamenti, risultando godevolissimo senza mai essere ruffiano. Niente di rivoluzionario, ma ugualmente consigliato senza riserve.

 

Mauro Ranchicchio

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