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ROBERT WYATT ComicOpera Domino Records 2007 UK

Poche persone al mondo riescono a dare un senso profondo e commovente alla vita. Robert Wyatt è una di queste. Sono gioia e tristezza, in un mix inscindibile, le peculiarità del suo messaggio. Sono gli occhi di un eterno fanciullo, triste per non avere più l’ombra. Quell’ombra, che come un ritratto di Dorian Grey, ha teso su di sé tutto ciò che di negativo e insano il mondo può portare, per questo è stata allontanata. La tenda (il sipario) che nasconde l’anima spettrale, ctonia e nascosta di Wyatt, talvolta viene tirata e l’immagine che ne salta fuori la si legge tra le note dei suoi lavori, che uno dopo l’altro non abbandonano mai chi, trepidante, li aspetta.
Già da qualche mese prima dell’uscita si vociferava di un lavoro imminente con collaboratori di eccezione, ed eccolo qui. I nomi, in effetti, sono grandi, ma nulla di nuovo o quasi per le classiche collaborazioni dello gnomo canterburyano. Per primo è d’obbligo citare chi ha consentito questa incisione mettendo a disposizione il proprio studio: Phil Manzanera, poi abbiamo Briean Eno, la moglie e alter-ego Alfreda Benge, Paul Weller, Annie Whitehead che ancora scambia le migliori battute con il suo trombone e il vecchio compare di Canterbury David Sinclair.
ComicOpera è quello che dice il titolo, ma non so suggerire se il disco sia più Comic o più Opera. Sta di fatto che il titolo rispecchia quello che dicevo su, con le due anime di gioia e tristezza, o, se vogliamo, le due maschere del teatro, per uno dei più grandi artista della scena colta europea.
Il lavoro è, sulla carta, diviso in tre atti: “Lost In Noise” - “The Here and The Now” - “Away With The Fairies”, ma forse solo per dare un’immagine di teatralità che potesse meglio accompagnare il titolo, in realtà si tratta di un album di splendide canzoni che, come sempre, sono in bilico, musicalmente parlando, tra il jazz, il blues, il Canterbury e la psichedelica e, dal punto di vista letterale, tra la poesia, la politica e il nonsense, come è sempre accaduto nella produzione di Wyatt che anche qui, oltre a cantare, suona le solite cose: piano, tromba, percussioni, cornetta e varie tastiere. Il suo tocco è magico e, Re Mida del pentagramma, trasforma in emozione ogni cosa.
Un’intera ora suddivisa in 16 brani. Sedici momenti da pelle d’oca per buona parte composti assieme alla moglie e arrangiati con Manzanera o con Eno. Alcuni brani hanno già rappresentato perle per produzioni di altri autori, come la prima “Stay Tuned” di Anja Garbarek figlia del grande sassofonista norvegese. Troviamo frammenti di parole strappate alla penna di Garcia Lorca, qualche recupero di note e parole dei lavori precedenti, qualcosa d’altro preso dal repertorio del Consorzio Suonatori Indipendenti (CSI). Ma al di là di quelli che possono essere gli autori, quello che è strabiliante è l’interpretazione. Sono i vertici di una rappresentazione della vita, così come esattamente è, la vita. Triste, spavalda, baldanzosa, teatrale, vera, finta, semplice e complessa. Tutto questo assieme e separatamente. Tutto questo come passare attraverso la città passeggiando sommessamente e, di tanto in tanto, alzare lo sguardo, magari solo per sciogliere i muscoli del collo e fermarsi qualche minuto di fronte a 16 finestre diverse: le finestre di casa mia, di casa tua e di chissà chi altro. Le finestre della casa interiore, la casa che ci portiamo dentro e della quale apriamo la porta solo per gli amici migliori e gli affetti certi.
Non c’è una spiegazione valida per la musica e le canzoni di Wyatt, sono immagini e se vi sono piaciute queste, sono quelle che vi faranno comprare il disco, altrimenti cercatele da voi le immagini giuste, ma il disco compratelo lo stesso.

 

Roberto Vanali

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