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SIMON WICKHAM-SMITH Multiple tongues Electroshock Records 2010 UK

“Multiple Tongues” potrebbe candidarsi per essere il disco più estremo ed ostico mai apparso finora sulle pagine di Arlequins e già questo la dice lunga sul reale contenuto di questo cd…. Il dubbio merito va a Simon Wickham-Smith, un musicista-ricercatore inglese da lungo tempo attivo nell’ambito della sperimentazione musicale, come solista oppure in coppia insieme all’amico Richard Youngs; il suo approccio alla materia è legato al minimalismo come al rumorismo di carattere industrial, con accenti dronici ed ampie elaborazioni e manipolazioni elettroniche. Uno degli interessi maggiori Wickham-Smith è il rapporto della parola con il rumore, le possibilità espressive della voce umana filtrate dalle infinite variazioni dell’elettronica: “Multiple Tongues” è un decisivo e radicale passo in avanti verso la totale trasfigurazione della voce umana in chiave elettronica, ovvero cinque lunghe composizioni realizzate fra il 1999 ed il 2004, in cui le voci di alcune interpreti chiamate apposta per la realizzazione di questo progetto sono completamente assorbite e rielaborate in un marasma di rumori, feedback digitali e distorsioni. Musicalmente siamo completamente al di là di qualsiasi concetto musicale, “Multiple Tongues” è più un gesto di ricerca cultural-scientifica da laboratorio piuttosto che musica vera e propria: l’inascoltabilità è quindi ampiamente garantita. Quel che c’è di buono in questo disco è la radicalità del progetto e delle sue sonorità: a tratti sembra sconfinare in un incubo da fantascienza, la citazione dantesca di “… Al Tempo Dei Dolci Sospiri…” è assai maniacale ed orrorifica in un’interpretazione costruita su inquietanti sussurri incomprensibili (con)fusi in mezzo a perniciosi ronzii rumoristici di ogni tipo; la chiusura di “Multiple Tongues” è affidata fortunatamente alla composizione più ragionevole (si fa per dire) del disco, “Jäätynut, Aurinko”, sorta di versione completamente “stoned” e depressa del minimalismo di stampo rileyano che sembra voler evocare l’immaginario ed irreversibile collasso psico-fisico del “fortunato” occasionale ascoltatore.


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Giovanni Carta

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