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WOLVE Sleepwalker autoprod. 2014 FRA

Apriamo con una domanda: ma tutto ciò che è post-la qualsiasi cosa… è prog? Il quesito sorge spontaneo; ormai vi sono tante band internazionali – propugnatrici di un sound fluttuante sulle oscure macerie di generi musicali vari, demoliti appositamente per l’occasione – che sembrano tenerci in particolar modo ad essere inquadrate nel settore del rock progressivo. I parigini Wolve di Julien Sournac, quanto meno, mettono in evidenza validi e costanti controtempi di batteria (basteranno per essere prog tout-court?), alternando spontaneamente fasi di pura catatonia onirica ad altre più energiche, ottenendo così una parziale schiarita a quel buio che avvolge l’ascoltatore in meno di quaranta minuti. Un Sournac che nella lunga “Cassiah” sembra a tratti ripercorrere il disadattamento alternative e post-grunge (ci risiamo!) di Chris Cornell, quando cioè la moda dei gruppi di Seattle era passata e quindi gli elementi di spicco di quella scena dovevano pur cercare di re-inventarsi qualcosa. Ma se parliamo di quest’ambito specifico, non possiamo non pensare anche alla parte più evocativa degli Alice In Chains ed al relativo progetto parallelo denominato Mad Season.
“Ocean”, anch’essa oltre i dieci minuti, è un po’ più personale; qui si affonda maggiormente nell’oscurità, anche se le parti migliori, comunque, sono fasi strumentali che devono ancora pagare dazio alle stesure alternative di cui sopra. Ci sono poi da citare i quasi otto minuti di “Color Collapse”, decisamente più vicina ai Porcupine Tree che hanno da poco lasciato la fase floydiana (pur tenendone alcuni strascichi nel proprio back-ground) per intraprendere quella più “alternativa” (ma quante volte l’avremo ripetuta, questa strabenedetta parola?!). Un’alternanza, quindi, di fasi quiete e scorrevoli con altre in cui la chitarra gratta riff caoticamente controllati. Chiude la title-track, una ballata non certo allegra per voce e chitarra acustica, che rimanda alla poetica di matrice Radiohead.
L’album è sicuramente ben bilanciato nella sua delicatezza, un fattore che può essere ancor più apprezzato se si pensa che questo debutto in realtà è un concept sul viaggio che si fa (o che si potrebbe non fare) dopo la morte. Julien Sournac, dopo tanti anni, è riuscito a mettere insieme dei musicisti capaci di interpretare il suo pensiero. Da questo punto di vista, felicitazioni ed onori a tutti. La stampa francese, dal canto suo, ne sta parlando in maniera che definire entusiastica è un eufemismo. Probabilmente, ci sarebbe invece da aspettare un attimo a lasciarsi andare agli entusiasmi senza riserva alcuna. Pur volendo ammettere che la Musica non dovrebbe essere vincolata da generi e sottogeneri inventati ad uso e consumo di chi scrive (e poi propinati ai lettori con la scusa di far comprendere loro quello che andranno a sentire o comprare), i Wolve sono uno di quei gruppi che ha bisogno di capire con esattezza a quale fetta di pubblico rivolgersi. Perché il momento di fare il grande salto rivolgendosi a chiunque senza distinzione alcuna – sforzatevi di crederci, per favore – non è ancora arrivato.


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Michele Merenda

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