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WET RABBIT Of clocks and clouds autoprod. 2015 UNG

Si parla di “one man band” in questi casi. E infatti con il nome Wet Rabbit agisce esclusivamente il polistrumentista ungherese Zoltan Sostai, che nel 2015 debutta con l’album “Of clocks and clouds”. Ambizioso e al contempo azzarderei un po’ presuntuoso, si tratta di un concept di ben settantacinque minuti sviluppato attorno al pensiero del filosofo Karl Popper riguardante l’indeterminismo, il fallibilismo e il libero pensiero. Senza addentrarci troppo in dottrine che esulano dal nostro campo, concentriamoci piuttosto sulla musica proposta. Sostoi è abile a proporci un progressive rock carico di un certo pathos, che deve sicuramente molto agli insegnamenti di Pink Floyd e Jean Michel Jarre. Ai primi si deve soprattutto quell’atmosfera un po’ sognante che pervade il disco, abbinata a sviluppi strumentali molto suggestivi, con timbri puliti e caldi. Più vicina al secondo, invece, quella tendenza che vede in alcuni frangenti un avvicinamento ad una forma di elettronica non spinta, attraverso la quale si mantiene un gran senso della melodia e del feeling immediato. Il disco, così, è contraddistinto da una forte omogeneità, che può essere vista allo stesso tempo come il pregio e il difetto. Se da un lato, infatti, Sostai riesce a costruire una serie di brani molto gradevoli, con parti strumentali accattivanti, soprattutto quando fa viaggiare le note lanciate con la chitarra elettrica, dall’altro l’eccessiva durata del cd comporta un graduale incremento della sensazione di stanchezza. Aggiungiamoci che le parti vocali sembrano un po’ monotone e che i ritmi non sono mai sopra le righe e non sorprende il fatto che si arrivi al momento clou, rappresentato dalla lunghissima suite in sei parti “Kill the robots” (che si avvicina alla mezz’ora di durata), senza quella dovuta concentrazione che permetterebbe di apprezzare in pieno una composizione di questo tipo. Ed è un peccato, perché un prodotto molto più “snello” avrebbe potuto rappresentare un biglietto di presentazione davvero notevole. Altre caratteristiche altalenanti: a volte sembra che i brani siano soprattutto un’occasione per dimostrare l’estro del musicista con chitarra elettrica e tastiere, con dei solos ben eseguiti ed anche di un certo fascino, ma che alla lunga sembrano molto simili tra loro. Manca, quindi quell’effetto dinamico che in un lavoro del genere dovrebbe essere fondamentale e non bastano quegli effetti loop e ambientali, né qualche inserimento elegante di pianoforte, a risolvere il problema, visto che tutto sembra scorrere allo stesso modo. Sostai dimostra chiaramente buone qualità e l’album contiene nel complesso musica valida, ma, la durata eccessiva è di sicuro un forte fattore penalizzante.


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Peppe Di Spirito

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