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FRANK WYATT AND FRIENDS Zeitgeist autoprod. 2019 UK

Di tanto in tanto, accade che la pubblicazione di un album acquisisca un significato che trascende lo stesso contenuto musicale dello stesso. Questo lavoro del compositore e tastierista Frank Wyatt, nostra vecchia e amata conoscenza dai tempi dei gloriosi Happy the Man (o, per alcuni, almeno dall’epoca delle rispettive ristampe in CD di quei due lavori di fine anni ‘70, seguiti da ottimi ripescaggi, come il demo di un già programmato terzo album e infine da una reunion nel 2004) merita attenzione non fosse altro per le circostanze in cui è stato pazientemente concepito ed assemblato. Il nostro Frank iniziò a lavorarvi con il sogno di un’ulteriore rimpatriata con i vecchi compagni di band, ma come acutamente osservò Lennon, la vita è ciò che ci accade mentre siamo impegnati a fare progetti, e così cinque anni fa, in “corso d’opera”, gli venne diagnosticata una grave malattia. Con la caparbia dei migliori, Wyatt, durante le pause tra vari cicli di terapia, riuscì a radunare attorno a sé tutti o quasi i musicisti con cui aveva collaborato nei decenni, per suonare assieme almeno un’ultima volta e celebrare l’amicizia in un frangente così delicato della sua vita. Troviamo quindi, in quest’autoproduzione corredata da un magnifico artwork di Michael Phipps, tutti i componenti storici degli HTM (Stan Whitaker, chitarra e voce, Kit Watkins, tastiere, Rick Kennell, basso, Ron Riddle, batteria, Mike Beck, percussioni, oltre al vocalist originale Cliff Fortney) accanto ai membri della più recente lineup come Joe Bergamini, batteria e David Rosenthal, tastiere. A rappresentare gli Oblivion Sun, l’altra band in cui Wyatt ha militato in seguito al secondo scioglimento degli HTM, troviamo i batteristi Chris Mack (anche ex-Iluvatar) e Bill Brasso, e il basso di David Hughes. Infine, dal progetto Pedal Giant Animals, ideato assieme al fido Whitaker, troviamo il sitar di Peter Princiotto, accreditato anche come co-arrangiatore delle partiture orchestrali e dalla band di rock sinfonico Cell15, già apprezzata al RoSfest 2018, il tastierista Andrew Colyer.
Terminata l’introduzione storica, sperando di non aver dimenticato nessuno, iniziamo con l’affermare che il lavoro in questione non sfigurerebbe affatto accanto agli album degli HTM, di cui ritroviamo la garbata scrittura infarcita di soluzioni strumentali a cavallo tra sinfonismo e un jazz-rock melodico e fruibile. La proposta è principalmente strumentale, ma si apre con la grintosa title-track interpretata con convinzione da Whitaker, che assieme al piano liquido di Wyatt e al synth esuberante di Watkins ci riporta diritti agli anni del debutto e di “Crafty Hands”, facendoci immergere senza preamboli nel mondo sonoro del disco. Se anche il contesto nel quale è stato concepito potrebbe suggerirci un’atmosfera cupa, già le prime note ci avvolgono di un’inattesa serenità, appena intrisa in alcuni episodi (come l’altro brano cantato, la più lineare “Eleventh hour”, quasi una ballata mainstream, ed il toccante tributo “Fred’s song”) di una malinconia dettata dalla consapevolezza – universale, non soggettiva - della mortalità. Wyatt si divide tra piano acustico e tastiere dalle timbriche morbide e soffuse (non ritroviamo gli interventi ai fiati), la chitarra è in effetti presente solo in alcune tracce, ma certo non se ne nota la carenza, semmai risalta l’interplay della sezione ritmica, vera arma in più degli arrangiamenti. È proprio una chitarra elettrica, quasi in odor di Holdsworth, a condurre le danze su “Twelve jumps”, a tratti persino genesisiana, se non fosse per gli effluvi fusion; da segnalare anche la dinamica “The approach” (è qui che udiamo il sitar…), quest’ultima a mio avviso brano “pivot”, scritta durante le sessioni per “The muse awakens” degli HTM e convincente prova della coesione del gruppo (e delle influenze… subliminali di Banks & co.). La fantasia percussiva a sostegno delle tastiere pastose di Wyatt nella breve “The leaving”, è la controprova che in quattro minuti scarsi si possano presentare coerentemente più idee di molte interminabili suite. Ho lasciato per ultima la piece de resistance dell’album, un’ambiziosa composizione di stampo orchestrale in quattro movimenti ispirata al secondo libro della “trilogia cosmica” di C.S. Lewis: la “Perelandra Symphony in D-flat major” ha richiesto a Frank molti mesi di lavoro, lasciandogli qualche perplessità sull’opportunità di includere nel disco un brano del genere, con le tastiere e gli strumenti campionati a sopperire alla mancanza di una vera orchestra. Sia pur discostandosi sensibilmente da quanto ascoltato in precedenza, questi venticinque minuti di musica amplificano l’aspetto elegiaco a dispetto di quello più rock e accattivante, ma senza sfigurare o stridere con questo, passando da sezioni riflessive a maestosi crescendo anche all’interno dello stesso movimento, richiamando a volte il lirismo pastorale di compositori classici come Vaughan Williams o Delius e concludendosi con note trionfanti in andamento presto; un esperimento che gli avidi fruitori di rock sinfonico potranno apprezzare con un minimo sforzo di attenzione in più.
Concludo con una nota positiva: l’album in questione, il cui titolo è un termine in lingua tedesca entrato nell’uso comune ad indicare lo “spirito del tempo”, era inteso da Wyatt come proprio “canto del cigno”, considerando i problemi di salute che lo avrebbero necessariamente distolto dalla musica, ma sappiamo che il nostro si è già immerso nella scrittura del prossimo capitolo discografico, ispirato al mito di Atlantide, partendo dal recupero di un vecchio brano, “Fountain by the Moon”, di cui è in cantiere un nuovo arrangiamento orchestrale.



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Mauro Ranchicchio

Collegamenti ad altre recensioni

HAPPY THE MAN Death's crown 1974 
HAPPY THE MAN The muse awakens 2004 
OBLIVION SUN Oblivion sun 2007 
OBLIVION SUN The high places 2013 

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