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XINEMA Different ways Unicorn Records 2002 SVE

Abbiamo finalmente l’occasione di colmare una lacuna, parlando dell’album di esordio di questo trio svedese (un successore è dato in arrivo a breve termine). Se la provenienza scandinava ha acceso i vostri entusiasmi, aprendovi la prospettiva di chissà quali paradisi sinfonici e scatenando reazioni pavloviane, vi consiglio da subito di moderare gli entusiasmi, a meno che non consideriate gli Asia di Wetton e Downes il più grande supergruppo della storia!
Per descrivere la direzione intrapresa dal gruppo, può essere utile rimarcare che i Xinema nascono dalle ceneri dei Madrigal (da non confondere con l’omonima band statunitense), entità attiva nella seconda metà degli anni ’80 le cui influenze dichiarate rispondevano ai nomi di Rush, Yes, Kansas e Styx. Non conosco la musica prodotta sotto questo marchio, ma i puntatori verso i loro numi tutelari sono quasi tutti presenti anche nella nuova incarnazione: l’AOR a stelle e strisce, gli album tardivi dei Kansas (penso a “Drastic Measures” e “Power”), gli Yes di Trevor Rabin o quelli di “Open your Eyes”. Un rock melodico dalle ritmiche lineari e dalla scrittura prevedibile, appena nobilitato dalle frequenti, melodiche escursioni del valido chitarrista Sven Larsson e dai sintetizzatori di Mikael Askemur (che ricopre anche i ruoli di cantante e bassista), questi ultimi raramente protagonisti, se si escludono alcuni flash strumentali alla Saga come quello che rende l’apertura “In the scent of the night” piuttosto promettente. Assolutamente anonime le parti vocali, spesso cantate a più voci come vuole la tradizione del rock da FM.
Quando i nostri tentano la strada della ballad (la semi-acustica “Across the Styx”, la pianistica “The secret” e “How can I believe” con quest’ultima a rammentarci che anche gli A-ha in effetti erano scandinavi…), i risultati non fanno certo gridare al miracolo e ci fanno quasi rimpiangere i momenti up-tempo; da dimenticare anche l’esperimento di “Timing” e la sua ritmica programmata da pop sintetico.
Insomma, si arriva al termine del disco senza che l’attenzione sia mai catturata in senso positivo, quando finalmente, in chiusura, i suoni filamentosi dei synth di “Blind is the light” riescono perlomeno ad indorare un po’ una pillola di cui però mi sento di consigliare l’assunzione esclusivamente in caso di astinenza da stadium rock.

 

Mauro Ranchicchio

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